Il sindacalismo integrale

Nazionalismo rivoluzionario

La malafede degli innovatori popolareschi —scrive Maurizio Maraviglia nell’Idea nazionale— ha accreditato il preconcetto che il nazionalismo sia una dottrina conservatrice, la quale tende a mantenere e consolidare i privilegi di classe.

Il nazionalismo è invece essenzialmente rivoluzionario, anzi la sola vera dottrina rivoluzionaria, perché ha come punto di riferimento la nazione — nella sua unità politica, economica e spirituale —, mentre le altre dottrine non hanno punto di riferimento o ne hanno uno molto minore: la classe, il partito, la fazione, e magari le persone proprie degli stessi innovatori. Il nazionalismo è principio d’energia e come tale non rifugge dalle piú ardite innovazioni: un economista nazionalista — Filippo Carli — si è fatto banditore del «partecipazionismo» e dell’«azionariato sociale», e la sua propaganda ha trovato larga eco nel campo nazionalista.

Maurizio Maraviglia, come gli altri nazionalisti, crede aver esaurito trionfalmente la sua dimostrazione, affermando la «storicità» del punto di riferimento della sua dottrina. Ma le affermazioni hanno valore dogmatico, ed è questo uno strano modo di essere storicisti e rivoluzionari. La distinzione effettiva tra la dottrina nazionalista e le altre dottrine è implicitamente posta dal Maraviglia stesso in una questione di «dignità», non di storicità; la nazione è piú degna della classe, dei partiti, dei singoli individui. Il rivoluzionarismo internazionalista si riduce quindi ad un’elegantissima questione retorica, simile in tutto alle questioni che i vecchi letterati facevano nel bel tempo antico per stabilire la maggiore dignità di un genere poetico piuttosto che di un altro, di un’opera d’arte piuttosto che di un’altra.

Nella storia non c’è il piú o il meno degno: c’è solo il necessario, il vivo e l’inutile, il cadavere. La classe, il partito, hanno altrettanta dignità che la nazione; essi anzi sono la nazione stessa, che non è un’astratta entità metafisica, ma concreta lotta politica di individui associati per il raggiungimento di un fine. Il fine è l’unica discriminante possibile di «dignità». E il fine non è un fatto, ma un’idea che si realizza attraverso i fatti. Fine rivoluzionario è la libertà, intesa come organizzazione spontanea di individui che accettano una disciplina per trovar in modo piú adeguato e idoneo i mezzi necessari allo sviluppo dell’umanità spirituale loro; intesa come massimo incremento dell’individuo, di tutti gli individui, ottenuto autonomamente dagli individui stessi. I nazionalisti sono conservatori, sono la morte spirituale, perché di «una» organizzazione fanno la «definitiva» organizzazione, perché hanno per fine non un’idea, ma un fatto del passato, non un universale, ma un particolare, definito nello spazio e nel tempo.

Il rivoluzionarismo nazionalista è pertanto solo confusionarismo. Se i partiti, le classi, gli individui sono necessari storicamente, hanno un loro compito da svolgere, il proporsene l’annullamento significa anche annullare il punto di riferimento cui si dice di tanto tenere: la nazione. E il fine reale cui i nazionalisti effettivamente rivelano di tendere non è altro che il consolidamento e la perpetuazione dei privilegi di un ceto economico: gli industriali odierni, e di un ceto politico, quello costituito dalle loro proprie persone di sedicenti innovatori. A danno delle energie economiche e politiche che la lotta politica, nel libero giuoco della concorrenza, può suscitare e avvalorare. A danno della nazione, che non è alcunché di stabile e definitivo, ma è solo un momento dell’organizzazione economico-politica degli uomini, è una conquista quotidiana, un continuo sviluppo verso momenti piú completi, affinché tutti gli uomini possano trovare in essa il riflesso del proprio spirito, la soddisfazione dei propri bisogni. Essa si è allargata dal Comune artigiano allo Stato nazionale, dal feudo nobilesco allo Stato nazionale borghese, in una affannosa ricerca di libertà ed autonomie. Tende ad allargarsi maggiormente, perché la libertà ed autonomie realizzate finora non bastano piú, tende a organizzazioni piú vaste e comprensive: la Lega delle Nazioni borghesi, l’Internazionale proletaria,

Il rivoluzionarismo nazionalista, la storicità della dottrina nazionalista è retorica e confusione.

Un romanzo economico-politico

Il nazionalismo è principio di energia e non rifugge dalle piú ardite innovazioni. Una di queste ardite innovazioni sarebbe, per il Maraviglia, il «sindacalismo integrale» di Filippo Carli.

Filippo Carli ha scritto, in numerose puntate, un deliziosissimo romanzo economico-politico. È una costruzione ciclopica, quella del Carli, che non trascura nulla: l’economia, la finanza, la morale, la politica vi trovano il loro piano prestabilito. Trascura una cosa sola: la storia, e la storia italiana in particolare. Per il Carli il maggior delitto che si sia perpetrato in omnibus saeculis saeculorum è l’assassinio delle corporazioni artigiane medioevali. Il suo sindacalismo integrale non è infatti che una programmazione delle corporazioni, ed è integrale perché non limitato ai comuni, ma esteso a tutta la nazione.

Il Carli propugna nient’altro che la instaurazione di uno Stato secondo ragione, uno Stato a priori, estratto dalla coscienza della classe dirigente. In esso si arriverebbe alla soppressione della lotta di classe, della cosí detta faziosità, della demagogia. Perché queste terribili cose non esistevano, per il Carli, nel Comune medioevale. E infatti non esistevano nel Comune come circoscrizione territoriale chiusa (almeno in determinati periodi), ma esistevano tra il Comune e il castello feudale, tra l’artigiano e il signore feudale, tra la città e il contado.

Le classi si trovarono, in certi momenti, ad essere divise anche territorialmente, ecco tutto, ed è naturale che in seno a ogni comunità territoriale non esistesse lotta di classe, perché la comunità era omogenea e la lotta di classe era la guerra intercomunale, o tra guelfi e ghibellini. La restaurazione del corporativismo, il sindacalismo integrale, non ha quindi alcun punto di riferimento storico nel passato, che non sia illusorio e arbitrario.

Né per il presente la sua arbitrarietà è minore. Il proletariato dovrebbe rinunziare alla lotta politica. La sua collaborazione sarebbe ottenuta mediante la «compartecipazione» e l’«azionariato sociale»: il proletariato economicamente dovrebbe diventare solidale con la borghesia, e quindi non pensare piú alla rivoluzione sociale, all’abolizione dei privilegi. Il proletariato sarebbe sottoposto a una «cultura» intensiva, sarebbe educato alla comprensione dei fini sociali di produzione e di vita nazionale. Il Carli ha dell’educazione e della cultura un concetto molto vago ed empirico: le immagina come veste esteriore, come abito da festa per la fiera nazionalistica. Esse infatti porrebbero come fine educativo due esteriorità, due fatti, la nazione e la produzione, mentre queste sono strumenti di vita morale, non fini morali. La nazione-ipotesi del Carli dovrebbe essere una Germania abitata da italiani; uno Stato germanico nel quale gli italiani alla barbarie morale sostituirebbero la gentile civiltà latina; un luteranesimo cattolico, una botte per aceto riempita di marsala.

Dilettantismo nazionalista

Il Carli appartiene a quel certo numero di studiosi che, per l’ammirazione che hanno per certi fenomeni economico-politici tedeschi, finiscono col confondere in essi tutta la vita tedesca, tutta l’attività tedesca. Non tengono conto delle screpolature, degli antagonismi che esistono anche in Germania; immaginano che la Germania debba perpetuare il suo sistema attuale e, perfezionato, propongono questo sistema a modello universale. La verità è alquanto diversa, e anche in Germania la borghesia stava subendo fatalmente la sua evoluzione liberale, stava distruggendo le sue corporazioni: la guerra è stata il massimo tentativo di conservazione di un sistema antieconomico di produzione, il tentativo di integrare il deficit sociale col bottino della vittoria. Il Carli, ipnotizzato dalle apparenze, confonde queste col tessuto storico vivo, e la sua opera letteraria, che pure si presenta irta di dimostrazioni, filata logicamente, e viziata dal dilettantismo, dall’amplificazione gratuita, dall’astrattismo ideologico.

Ardita innovazione davvero! Ma il Maraviglia stesso ne fa giustizia. Il Maraviglia chiama «ardita» l’innovazione, ma non l’accetta, e non si comprende l’aggettivo se appunto non ci si rifà al dilettantismo e al metodo accademico delle dimostrazioni nazionaliste: si chiama «ardito» anche ciò che si ritiene falso, si porta a comprovare l’energia vitale di una dottrina una costruzione che si giudica barocca e inconsistente. Il Maraviglia chiamerebbe questo metodo faziosità e demagogismo nei socialisti. Nei nazionalisti noi ci accontenteremo di chiamarlo confusionismo e dilettantismo.

Il Grido del Popolo, 23 marzo 1918; Avanti!, ed. milanese, 30 marzo 1918. firmato A. G.