Parlamentarismo e fascismo in Italia

Il 10 dicembre è stato promulgato un decreto reale, che ha posto fine alla sessione parlamentare apertasi nel maggio 1921: non si sa ancora se la chiusura della sessione significa anche la chiusura della legislatura. Ciò dipenderà meno dalla situazione politica generale che dalla situazione interna del partito fascista.

Nel momento in cui scriviamo in tutti i fasci locali sono in corso, sotto il controllo dei prefetti e la sorveglianza diretta dei carabinieri, le elezioni dei nuovi dirigenti del partito. Se le elezioni, come è probabile, date le misure preventive del governo e del Comitato centrale provvisorio del partito fascista, avranno come risultato la vittoria del mussolinismo, le elezioni si terranno nella primavera prossima. Se il governo ha la certezza di poter costituire delle liste relativamente omogenee di candidati fascisti e di far eleggere una maggioranza dalla quale non avrà da temere, una volta tenute le elezioni, situazioni impreviste, gli sarà piú facile ridurre al minimo l’opposizione e ottenere un voto popolare clamoroso in favore dei nuovi padroni del paese. Il governo ha già cominciato a prendere provvedimenti affinché la volontà popolare possa esprimersi su basi allargate: ha, per cominciare, soppresso quel po’ di stampa legale che restava al partito comunista.

La legislatura che sta per finire ha visto la liquidazione progressiva di tutti i partiti tradizionali della grande e della piccola borghesia. Essa si aprì sotto il governo Giolitti che, con il brillante concorso di D’Aragona, Turati e Modigliani, riuscì poco dopo a far restituire ai capitalisti le fabbriche occupate dagli operai metallurgici. All’inizio la Camera non contava che un gruppetto di una trentina di fascisti; in una delle sue ultime votazioni essa si è mostrata disposta a rinnovare i pieni poteri a Mussolini con una maggioranza schiacciante, nella quale entrarono anche i voti del gruppo parlamentare del partito popolare.

Mai in nessuno Stato borghese si è vista un’assemblea legislativa cadere tanto in basso. Nata per soffocare sotto una valanga di schede elettorali la guerra civile che nel maggio 1921 si era scatenata con estrema violenza in tutta l’Italia, questa Camera è servita solo a dimostrare l’incapacità assoluta della democrazia di fronte al fascismo, cui essa non ha neanche potuto impedire di dare le apparenze della legalità a un colpo di forza compiuto con l’aiuto di elementi di destra.

A dire il vero, si deve riconoscere retrospettivamente che i tre governi che hanno preceduto l’avvento del fascismo al potere avevano la buona intenzione di ostacolare lo sviluppo del movimento fascista e di ristabilire una certa legalità democratica. Giolitti si illuse di trattare il morbo fascista con la stessa cura omeopatica usata nel settembre 1920 con gli operai. Dopo aver facilmente separato D’Annunzio dal fascismo, credette di poter aver ragione di quest’ultimo minacciando Mussolini di rivelazioni sensazionali. Nonostante il suo decreto del luglio 1921, che elevò fino ai limiti dell’assurdo le tariffe doganali facendo ai capitalisti e agli agrari larghe concessioni, Giolitti fu costretto a battere in ritirata dalla volontà irriducibile della destra reazionaria.

Il gabinetto Bonomi che gli succedette sembrò ancora piú deciso: a Sarzana i carabinieri, a Modena le guardie regie spararono su qualche decina di fascisti che avevano tentato di sostituirsi alle autorità legali. Ma di fronte all’offensiva immediata della reazione che portò al suicidio del generale D’Amelio, comandante delle guardie regie, il governo Bonomi, vistosi privato di tutti i mezzi, non potendo neanche piú impiegare le forze armate per garantire l’incolumità personale dei deputati antifascisti, si ridusse a creare, di sottomano e con il concorso dei nittiani e dei riformisti del gruppo Modigliani, un’organizzazione armata di tipo fascista, quella degli «arditi del popolo».

Cosí cadde anche il gabinetto Bonomi dopo essere riuscito, con le sue mezze misure, a rendere piú decisa l’avanzata fascista. Il terzo gabinetto, quello di Facta, coronò l’opera dei due predecessori. Facta, un avvocatuccio di provincia, Giolitti, un politico insignificante, dovevano mascherare le grandi manovre strategiche della democrazia, difesa da un gruppo considerevole di industriali e banchieri dell’Italia del nord, per soffocare, se necessario con l’aiuto dell’esercito, il fascismo. Ma era evidentemente troppo tardi: le forze di cui disponeva la democrazia erano insufficienti. Verso la metà del 1922, il governo Facta tentò di ridurre gli effettivi dei carabinieri — che erano sotto il controllo diretto del ministro della guerra, l’agrario fascista principe Di Scalea — per farne passare la metà, circa 30.000, nella guardia regia, subordinata alla direzione generale di polizia, allora nelle mani dei giolittiani. Verso la metà d’ottobre il capo di stato maggiore, generale Badoglio, credeva ancora di poter affermare che il fascismo potesse essere liquidato in quindici giorni con i mezzi ordinari della polizia e dell’esercito.

I giornali annunciarono per il 4 novembre (1922) un grande discorso di Gabriele D’Annunzio a Roma, di cui si diceva che avrebbe provocato, parallelamente all’azione dei generali giolittiani, un «movimento di folla». Ma i fascisti erano in grado di parare dal punto di vista sia politico che militare il colpo preparato. Essi riuscirono a ingannare persino Giolitti, al quale lasciarono credere che la crisi imminente poteva essere scongiurata mediante una soluzione parlamentare; si parlò di costituire un nuovo governo in cui non dovevano entrare che tre o quattro fascisti. Riuscirono egualmente a intimorire il re, a separarlo da Facta e da Giolitti e, approfittando della confusione provocata da queste manovre politiche, il 29 ottobre fecero marciare le loro truppe sulla capitale.

La maggioranza parlamentare che era stata favorevole alla politica dei giolittiani contro il fascismo e persino, a rigore, alla formazione di un governo di sinistra, apertamente e decisamente antifascista, cadde subito in ginocchio davanti al manganello di Mussolini: gli accordò i pieni poteri che egli si era preso; incassò, senza batter ciglio, gli insulti dei trionfatori; non abbozzò neanche il minimo gesto di protesta contro i metodi d’intimidazione e di vendetta personali del nuovo governo. Questi eccessi raggiunsero l’acme con il saccheggio della casa di Nitti e con il tentativo di assassinio dello stesso uomo politico alla vigilia del rinnovamento dei pieni poteri a Mussolini.

Questa situazione nel Parlamento italiano ha ovviamente avuto ripercussioni di varia natura sulla piccola frazione rivoluzionaria della Camera. Le misure prese dal Comitato esecutivo del partito comunista contro il compagno Bombacci sono, a questo proposito, assai significative. Bombacci ritenne di dover tenere nei riguardi del governo fascista, in occasione della discussione sui rapporti commerciali tra l’Italia e la Russia, un linguaggio banalmente cortese e degno di un politicante di piccolo calibro. E tuttavia, la situazione imponeva chiaramente a ogni rappresentante del proletariato rivoluzionario, un determinato atteggiamento. Dopo un anno e mezzo di tergiversazioni, il governo italiano si era deciso a sottoporre alla Camera un progetto di accordo commerciale con la Russia che, pur costituendo un grande progresso sul progetto precedente, non comportava ancora il riconoscimento de jure della Repubblica dei soviet, benché il Consiglio dei commissariati del popolo si fosse rifiutato di ratificare il trattato precedente, precisamente perché non comportava il riconoscimento de jure. Il governo fascista, entrando in questa nuova fase dei negoziati, cedeva di fronte alla pressione esercitata dai capitalisti italiani, i quali, dinanzi al naufragio imminente del capitalismo tedesco, vedevano l’equilibrio economico europeo minacciato e vedevano affacciarsi nuovi pericoli economici e politici dalla parte della Francia. La politica francese tendeva, infatti, a imporre all’Italia una sorta di vassallaggio. I negoziati tra l’Italia e la Russia sono, in questo momento, ispirati assai piú dal desiderio di esercitare una pressione sulla Francia e sull’Inghilterra che dalla reale volontà di stabilire rapporti commerciali con la Repubblica dei soviet.

Il terreno era dunque estremamente favorevole per una offensiva comunista che doveva stabilire in modo inequivocabile:

1) il fallimento della politica estera del governo fascista che, strettamente legato alla Francia, aveva contribuito a provocare la catastrofe economica della Germania e, di conseguenza, l’asservimento dell’Italia alla Francia;

2) la politica perseguita dalla Confederazione generale dell’industria italiana contro il governo fascista e il modo con cui questo era stato costretto ad accettare il punto di vista degli industriali;

3) la funzione antimperialista della Repubblica dei soviet e la necessità, per le nazioni economicamente deboli che vogliano salvaguardare la loro indipendenza, di trovare un terreno di collaborazione economica e politica con l’Unione dei soviet.

I capitalisti, attraverso l’organo dell’onorevole Olivetti, segretario generale della Confederazione industriale, sostenevano che i nuovi negoziati con la Russia non avevano raggiunto i risultati attuali solo perché in Russia il capitalismo è stato «completamente ristabilito», perché gli stessi bolscevichi provano che la civiltà moderna significava e non può significare altro che regime capitalistico.

Il compagno Bombacci, invece di portare nella discussione la voce fiera e dignitosa del proletariato internazionale, vittorioso in Russia dove tiene saldamente il potere nelle sue mani, lasciando vivacchiare per propria convenienza alcune forme di economia privata che non rappresentano che un’infima parte dell’economia nazionale, si abbassò fino all’adulazione della rivoluzione fascista e della mania di grandezza di Mussolini con luoghi comuni di una banalità sconsolante. Già, è opportuno ricordarlo, fin dagli inizi della partecipazione alla vita parlamentare della frazione fascista, gli operai avevano visto con dolore e stupore che Bombacci non sapeva tenere con questi individui, le cui mani erano macchiate di sangue proletario, che rapporti improntati a una deplorevole cordialità.

La cortesia amichevole di Bombacci nei riguardi dei suoi «colleghi» fascisti è stata largamente sfruttata dai giornali opportunisti nelle loro polemiche contro il nostro partito. In una recente riunione fascista, il segretario generale del fascio, Giunta, parlando della «curiosa abitudine» di Bombacci, è giunto fino al punto di proporre, in tono semi scherzoso, di accordare a Bombacci la tessera di adesione al partito di Mussolini.

Il Partito comunista italiano doveva porre un termine a questo spettacolo indecoroso provocato dalla debolezza e dalla incapacità di un compagno inviato alla Camera dall’eroico proletariato di Trieste perché vi facesse del parlamentarismo rivoluzionario…

La correspondance internationale, 28 dicembre 1923. Firmato G. Masci.