Il problema di Milano

Bisogna porre con grande precisione e con grande franchezza agli operai di Milano il problema… di Milano. Perché a Milano, grande città industriale, con un proletariato che è il piú numeroso fra i centri industriali italiani, che da solo rappresenta piú di un decimo degli operai di fabbrica di tutta Italia, perché a Milano non è sorta una grande organizzazione rivoluzionaria, mentre il movimento è sempre stato rivoluzionario? Perché a Milano non ci sono stati mai piú di 3.000 organizzati nel partito socialista? Perché a Milano, anche quando il movimento era al suo massimo di altezza, comandavano effettivamente i riformisti? Perché a Milano tutte le associazioni operaie, sindacali, cooperative, mutue, sono sempre state nelle mani dei riformisti o semi-riformisti, anche quando le masse erano spinte nelle strade dal piú entusiastico slancio rivoluzionario?

Bisogna porre nettamente e francamente il problema delle masse, e chiamarle a risolverlo coi loro propri mezzi, con la loro volontà, coi loro sacrifici. Il problema è vitale, è il piú importante problema della rivoluzione italiana. È possibile pensare a una rivoluzione italiana se la schiacciante maggioranza del proletariato milanese non è prima stata nettamente conquistata a una concezione precisa e tagliente di ciò che sarà la dittatura proletaria, dei sacrifici e degli sforzi inauditi che essa domanderà alle masse lavoratrici? A Milano sono i maggiori centri vitali del capitalismo italiano: il capitalismo italiano può essere solo decapitato a Milano.

Per la rivoluzione italiana esiste già un problema pieno di incognite, quello di Roma, della capitale politica e amministrativa, dove non esiste un proletariato industriale numeroso che possa avere il sopravvento sulla numerosa borghesia: i fascisti hanno mostrato una delle soluzioni che il problema di Roma può avere. Ma essa sarebbe utopistica per la rivoluzione proletaria senza una netta vittoria a Milano, se a Milano non si crea una situazione tale per cui decine e decine di migliaia di operai devoti, entusiasti e che abbiano delle idee molto chiare e dei fini molto precisi possano essere armati e solidamente inquadrati. Il problema di Milano non è quindi una questione locale: esso è un problema nazionale e in un certo senso anche internazionale. Gli operai di Milano devono persuadersi di ciò e dalla comprensione dei doveri formidabili che incombono su di loro devono trarre tutta l’energia e tutto l’entusiasmo che sono necessari per condurre a termine il compito necessario.

Non sarebbe difficile rintracciare le cause remote e vicine per cui a Milano si è creata l’attuale situazione, nella quale, è inutile nasconderlo, sono i riformisti ad avere l’effettivo controllo delle masse. Poche grandi fabbriche, numero infinito di piccole e piccolissime officine, grande quantità di piccoli borghesi addetti al commercio, grande numero di impiegati, tradizione democratica fortissima nei vecchi operai, ecc., ecc.. Ma a noi basta ricordare lo slancio rivoluzionario dimostrato sempre dalle masse operaie milanesi per giungere a queste conclusioni:

1) la situazione attuale si è creata per gli errori del partito socialista negli anni dopo la guerra;

2) è possibile, con un lavoro assiduo, paziente, di ogni giorno, di ogni ora, con la piú devota abnegazione dei migliori operai, mutare la situazione.

Il partito socialista non si è preoccupato dell’importanza enorme che Milano avrebbe avuto nella rivoluzione e non ha mai cercato di creare una grande organizzazione politica. Negli anni 1919-20, per essere all’altezza dei suoi compiti di centro organizzativo dell’economia nazionale, Milano avrebbe dovuto avere una sezione socialista di almeno 30-40.000 soci: cosa possibilissima in una città che conta circa 300.000 lavoratori, quando la grande maggioranza segue il partito che dice di volere la rivoluzione. Invece a Milano sembrava che gli operai venissero appositamente tenuti lontani dall’organizzazione di partito. I circoli rionali non avevano che una molto scarsa importanza e d’altronde accoglievano solo gli inscritti al partito. Nella sezione gli elementi operai non avevano la possibilità di far sentire la loro voce. La tribuna era sempre occupata dai grandi assi della demagogia riformista e massimalista, che parlavano ore e ore sui grandi problemi della politica internazionale o… comunale; non una discussione seria sui problemi piú intimamente operai, come i consigli di fabbrica, le cellule d’officina, il controllo operaio, nella trattazione dei quali anche il piú semplice operaio avrebbe avuto una competenza e dei punti di vista da prospettare. Chi lavorava erano i riformisti: lo scheletro intiero dell’organizzazione operaia milanese era costituito dai riformisti. Sapientemente scaglionati in tutti i punti strategici piú importanti, sapendo lavorare silenziosamente e metodicamente, sapendo piegarsi e scomparire quando il turbine rivoluzionario diventava piú violento, i riformisti saldarono fortissime catene entro le quali oggi la classe operaia milanese circola senza neppure accorgersene. Era tipico di Milano e estremamente significativo dell’assenza di una organizzazione rivoluzionaria, il fatto che quando il movimento di piazza raggiungeva il suo massimo, quando da tutti gli angoli della città brulicava la massa fin nei suoi elementi piú miseri e piú apatici, gli anarchici prendevano il sopravvento nella direzione; quando il movimento era medio e le grosse parole bastavano, allora i massimalisti erano i leoni; quando invece c’era stagnazione e solo le forze piú attive organizzate erano viventi, allora la direzione era dei riformisti. Il regime fascista ha ridotto ai minimi termini il movimento di classe: i riformisti trionfano su tutta la linea.

Cosa significa tutto ciò? Che noi, gli operai rivoluzionari lavoriamo molto male. Solo per la nostra incapacità, solo per il nostro torpore, i riformisti sono forti e pare rappresentino le masse. Bisogna quindi imparare a lavorare, bisogna prospettarsi il problema in ogni fabbrica, in ogni casa, in ogni rione, del come lavorare per acquistarsi la simpatia delle grandi masse, della parte piú povera della classe operaia che è anche la piú numerosa e che darà le piú folte e fedeli schiere di soldati alla rivoluzione.

E bisogna discutere e far discutere. Le nostre colonne hanno anche e specialmente questo scopo.

L’Unità, 21 febbraio 1924. Non firmato.
È il primo articolo di Gramsci pubblicato nell’Unità, il cui primo numero era uscito il 12 febbraio 1924.