«Capo»

Ogni Stato è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano attorno a uno dotato di maggiore capacità e di maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un «capo». Che dei socialisti, i quali dicono ancora di essere marxisti e rivolu-zionari, dicano poi di volere la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei «capi», di non volere che il comando si individui, si personalizzi, che si dica, cioè, di volere la dittatura, ma di non volerla nella sola forma in cui è storicamente possibile, rivela solo tutto un indirizzo politico, tutta preparazione teorica «rivoluzionaria».

Nella quistione della dittatura proletaria il problema essenziale non è quello della personificazione fisica della funzione di comando. Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia, nei rapporti che esistono tra questo partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico? Il capo, il partito sono elementi della classe operaia, sono una parte della classe operaia, ne rappresentano gli interessi e le aspirazioni piú profonde e vitali, o ne sono una escrescenza, o sono una semplice sovrapposizione violenta? Come questo partito si è formato, come si è sviluppato, per quale processo è avvenuta la selezione degli uomini che lo dirigono? Perché è diventato il partito della classe operaia? È ciò avvenuto per caso? Il problema diventa quello di tutto lo sviluppo storico della classe operaia, che lentamente si costituisce nella lotta contro la borghesia, registra qualche vittoria e subisce molte disfatte; e non solo della classe operaia di un singolo paese, ma di tutta la classe operaia mondiale, con le sue differenziazioni superficiali eppure tanto importanti in ogni momento separato, e con la sua sostanziale unità e omogeneità.

Il problema diventa quello della vitalità del marxismo, del suo essere o non essere la interpretazione piú sicura e profonda della natura e della storia, della possibilità che esso all’intuizione geniale dell’uomo politico dia anche un metodo infallibile, uno strumento di estrema precisione per esplorare il futuro, per prevedere gli avvenimenti di massa, per dirigerli e quindi padroneggiarli.

Il proletariato internazionale ha avuto ed ha tuttora un vivente esempio di un partito rivoluzionario che esercita la dittatura della classe; ha avuto e non ha piú, malauguratamente, l’esempio vivente piú caratteristico ed espressivo di chi sia un capo rivoluzionario, il compagno Lenin.

Il compagno Lenin è stato l’iniziatore di un nuovo processo di sviluppo della storia, ma lo è stato perché egli era anche l’esponente e l’ultimo piú individualizzato momento di tutto un processo di sviluppo della storia passata, non solo della Russia, ma del mondo intiero. Era egli divenuto per caso il capo del partito bolscevico? Per caso il partito bolscevico è diventato il partito dirigente del proletariato russo e quindi della nazione russa? La selezione è durata trent’anni, è stata faticosissima, ha spesso assunto le forme apparentemente piú strane e piú assurde. Essa è avvenuta, nel campo internazionale, al contatto delle piú avanzate civiltà capitalistiche dell’Europa centrale e occidentale, nella lotta dei partiti e delle frazioni che costituivano la II Internazionale prima della guerra. Essa è continuata nel seno della minoranza del socialismo internazionale, rimasta almeno parzialmente immune dal contagio socialpatriottico. Ha ripreso in Russia nella lotta per avere la maggioranza del proletariato, nella lotta per comprendere e interpretare i bisogni e le aspirazioni di una classe contadina innumerevole, dispersa su un immenso territorio. Continua tuttora, ogni giorno, perché ogni giorno bisogna comprendere, prevedere, provvedere. Questa selezione è stata una lotta di frazioni, di piccoli gruppi, è stata lotta individuale, ha voluto dire scissioni e unificazioni, arresti, esilio, prigione, attentati: è stata resistenza contro lo scoraggiamento e contro l’orgoglio, ha voluto dire soffrire la fame avendo a disposizione dei milioni d’oro, ha voluto dire conservare lo spirito di un semplice operaio sul trono degli zar, non disperare anche se tutto sembrava perduto, ma ricominciare, con pazienza, con tenacia, mantenendo tutto il sangue freddo e il sorriso sulle labbra quando gli altri perdevano la testa. Il Partito comunista russo, col suo capo Lenin, si era talmente legato a tutto lo sviluppo del suo proletariato russo, a tutto lo sviluppo, quindi, dell’intiera nazione russa, che non è possibile neppure immaginare l’uno senza l’altro, il proletariato classe dominante senza che il partito comunista sia il partito del governo e quindi senza che il Comitato centrale del partito sia l’ispiratore della politica del governo, senza che Lenin fosse il capo dello Stato. Lo stesso atteggiamento della grande maggioranza dei borghesi russi che dicevano: — una repubblica con a capo Lenin senza il partito comunista sarebbe anche il nostro ideale — aveva un grande significato storico. Era la prova che il proletariato esercitava non solo piú un dominio fisico, ma dominava anche spiritualmente. In fondo, confusamente, anche il borghese russo comprendeva che Lenin non sarebbe potuto diventare e non avrebbe potuto rimanere capo dello Stato senza il dominio del proletariato, senza che il partito comunista fosse il partito del governo; la sua coscienza di classe gli impediva ancora di riconoscere oltre alla sua sconfitta fisica, immediata, anche la sua sconfitta ideologica e storica; ma già il dubbio era in lui, e questo dubbio si esprimeva in quella frase.

Un’altra quistione si presenta. È possibile, oggi, nel periodo della rivoluzione mondiale, che esistano «capi» fuori della classe operaia, che esistano capi non-marxisti, i quali non siano legati strettamente alla classe che incarna lo sviluppo progressivo di tutto il genere umano? Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato sacro romano impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera piú indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro feroce meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Conosciamo tutto questo meccanismo, tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa impressionare e muovere i precordi alla gioventù delle scuole borghesi; esso è veramente impressionante anche visto da vicino e fa stupire. Ma «capo»? Abbiamo visto la settimana rossa del giugno 1914. Piú di tre milioni di lavoratori erano in piazza, scesi all’appello di Benito Mussolini, che da un anno circa, dall’eccidio di Roccagorga, li aveva preparati alla grande giornata, con tutti i mezzi tribunizi e giornalistici a disposizione del «capo» del partito socialista di allora, di Benito Mussolini: dalla vignetta di Scalarini al grande processo alle Assise di Milano. Tre milioni di lavoratori erano scesi in piazza: mancò il «capo», che era Benito Mussolini. Mancò come «capo», non come individuo, perché raccontano che egli come individuo fosse coraggioso e a Milano sfidasse i cordoni e i moschetti dei carabinieri. Mancò come «capo», perché non era tale, perché, a sua stessa confessione, nel seno della direzione del partito socialista, non riusciva neanche ad avere ragione dei miserabili intrighi di Arturo Vella o di Angelica Balabanoff.

Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia.

La dittatura del proletariato è espansiva, non repressiva. Un continuo movimento si verifica dal basso in alto, un continuo ricambio attraverso tutte le capillarità sociali, una continua circolazione di uomini. Il capo che oggi piangiamo ha trovato una società in decomposizione, un pulviscolo umano, senza ordine e disciplina, perché in cinque anni di guerra si era essiccata la produzione, sorgente di ogni vita sociale. Tutto è stato riordinato e ricostruito, dalla fabbrica al governo, coi mezzi, sotto la direzione e il controllo del proletariato, di una classe nuova, cioè al governo e alla storia.

Benito Mussolini ha conquistato il governo e lo mantiene con la repressione piú violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, piú per vedere com’era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi entro l’orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia…

Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo.

L’Ordine Nuovo, 1° marzo 1924. Non firmato.
Poi nell’Unità, 6 novembre 1924, col titolo Lenin capo rivoluzionario, e firmato Antonio Gramsci.