A me stesso

Caro me stesso. — Ho riletto oggi il Sotto la Mole di ieri. Ho trovato che esso è unilaterale, mentre la guerra, direbbe il signor de La Palice, non può non essere bilaterale. La guerra, e le ripercussioni di tutte le iniziative e le propagande che i signori oltranzisti prendono e fanno ai fini della guerra.

Cosí anche il menú, come tutte le armi, è un’arma a doppio taglio. Essa ferisce anche chi la impugna, e questa volta la ferita è cosí grave che è lecito affermare trattarsi di uno dei tanti misfatti di disfattismo di cui si sono resi colpevoli la «Gazzetta del Popolo», e il direttore suo, conte Delfino Orsi.

Le constatazioni necessarie dedotte dalla lettura del Pranzo di domani sono: a Torino la media del popolo guadagna 50 lire al giorno, e può offrirsi dei pranzetti e delle cenette in cui non mancano la carne, il burro, il formaggio, la pasta, il riso. Se questa media veramente esistesse, e potesse veramente offrirsi le preziose leccornie su elencate, la lettura del giornale orsino sarebbe innocua come una qualsiasi consultazione di un qualsiasi Cuoco per tutti. Avviene invece che la media e la possibilità sono nient’altro che un’arma di guerra, l’ultima ricetta per tenere alto il morale. E allora le conclusioni interne sono d’una gravità proditoria incalcolabile. Ogni singolo cittadino crede all’esistenza reale della media e della possibilità, e per la diretta conoscenza del proprio bilancio familiare e delle possibilità mercantili della piazza, si persuade di essere egli escluso dalla media, di essere egli escluso dalla possibilità di acquistare pasta, riso, burro, formaggio. Ogni singolo vuol significare tutti, in linguaggio matematico, e cosí si formerà l’opinione diffusa che tutti sono delle vittime, ma che esiste una ipotetica media che si mangia tutte le derrate, che accumula tutte le ricchezze; e questa media non si potrà impersonare in un ceto superiore di classe, ma sarà un fantasma medio-borghese, un fantasma di untori, di monatti, di polverine, di miracolose persone che sono dappertutto e in nessun luogo come l’onnipotenza divina.

Questo il disfattismo del conte Orsi e della «Gazzetta del Popolo»: far nascere uno stato d’animo imponderabile, imprecisabile, perché ognuno crede di essere vittima ed è creduto dagli altri un Lucullo, perché ognuno soffre ed è creduto dagli altri un epicureo. È lo stato d’animo ideale per il diffondersi delle notizie piú strampalate, per l’affermarsi delle credenze piú fantastiche e mirabolanti. Il microbo tedescofilo vi trova la sua cultura naturale, e prospera e intacca il saldo organismo della resistenza nazionale.

Ma chi compie questa opera deleteria è il conte Delfino Orsi, il lampadoforo della tradizione piemontese. È la «Gazzetta del Popolo», la seminatrice di coraggio, la sentinella avanzata dell’italianità e dell’idea nazionale.

Queste constatazioni era necessario farle per integrare l’oltranzismo, e per dimostrare l’altra faccia immancabile: il disfattismo. Ma lo scandalo di Bolo Pascià non ha ancora aperto gli occhi a nessuno. Cordialmente. — Io stesso.

(15 gennaio 1918).