Cocaina

Hanno permesso che il Mogol riapra i suoi battenti e le sue sale ai frequentatori? Non ho avuto l’occasione né lo stimolo curioso di accertarmene. Ma la concessione tacita non mi produrrebbe meraviglia.

Il Mogol è stato chiuso per ordine del questore: nelle ore tarde della notte giovani vi si riunivano per inebriarsi con la cocaina. Perché fu chiuso il Mogol? Per il fatto che accoglieva clienti nelle ore interdette dalla legge, o perché questi clienti vi si inebriavano con la cocaina? I nomi di questi infelici non sono stati pubblicati; non è stato pubblicato neppure il nome del farmacista che vendeva loro il veleno. Dunque il fatto per l’autorità non costituisce crimine, i nomi non sono nomi di colpevoli che sia utile dare alla pubblicità come di esseri nocivi al benessere sociale: l’autorità si è solo preoccupata dell’ora non regolamentare.

I giornali benpensanti hanno avuto una breve fuga di moralismo. Uno si è accorto che in Italia la cocainomania non è punita dalle leggi, e se ne preoccupa; un altro ha confezionato una predica d’occasione, ricordando agli sciagurati che la patria è in guerra, che i fratelli soffrono in trincea e altri stimoli morali del genere che per l’enfasi e la fatuità con cui sono espressi suonano sordo come i ventini di piombo.

Come a Torino, anche a Roma e a Bologna sono stati scoperti (!?) amatori dell’ebrezza con gli alcaloidi. E dappertutto la stessa fraseologia di maniera. Ohibò! non è la legge che farà scomparire il vizio. Ma se il vizio è un portato necessario della civiltà moderna!… Civiltà esteriore, che ha per base il lavoro, ma degli altri. Si formano necessariamente queste schiume putride, senza fini, senza morale, senza storia. Cosa è la vita per tanti? Animalità corporea, godimento dei sensi, meccanicità nervosa e muscolare. Perché dovrebbero non inebriarsi con la cocaina? Io mi maraviglio che cosí pochi sdrucciolino per la china dei piaceri che rovinano. La causa della poca diffusione del vizio non è il dovere morale: è l’indifferenza, è la rozzezza. S’accontentano di molto meno, ecco tutto, ma il fenomeno è grave cosí come se i morfinomani fossero mezzo milione invece che cinquecento.

Certo la causa prima è l’assenza di fini morali, ma può un borghese avere fini morali? Se è un eroe, sí, ma la media è tutt’altro che eroica. Il lavoro, l’attività salva i borghesi dalla perversione, ma un certo numero di individui della classe non lavora affatto, non saprebbe come riempire utilmente le ventiquattro ore della giornata. Di milionari che stiano dodici ore al giorno a tavolino come Benedetto Croce ci dev’essere solo Benedetto Croce; gli altri preferiscono le gare ippiche, le stazioni balneari, Montecarlo, i romanzi di Luciano Zuccoli e la cocaina. Li può salvare solo l’ottusità dei sensi e l’avarizia, cioè l’essere al di sotto dell’animalità umana media.

Si possono fabbricare i fini morali, instillarli nelle tenere menti sui banchi della scuola? Ma la scuola continua nella società, e la vita di relazione sociale è ben diversa da quella degli apologhi, dal buon Giannetto al Pinocchio. Il lavoro solo dà impulsi morali, è il crogiolo dal quale si volatizzano le essenze spirituali che possono dare una regola di vita. I piú sono immediati e solo per concatenazione arrivano al generale. La patria, la famiglia, l’umanità, la bontà, la giustizia hanno bisogno, per essere reali, di prender forma piú volte al giorno in attività minime che domandino fatica e sacrifizio, che diano soddisfazione e gioia. Si devono trasformare, queste parole, in carta da annerire con l’inchiostro, in peso da sollevare sulle spalle, in utensili o macchine da mettere in azione. La moralità consiste solo nel mettere in relazione l’azione minima col fine massimo, e perciò è necessaria l’esistenza dell’azione minima, di un rosario infinito di queste azioni da sgranare quotidianamente. Altrimenti, ebrezza di cocaina o ebrezza di parole vuote, allucinamento fisico o allucinamento spirituale per un moscone-parola che sbatte le ali da una parete all’altra del cranio: patria, umanità, popolo, giustizia…

La moralità, — i piú non esistono fuori dell’organizzazione, prenda il nome di Ecclesia o di Partito, — non esiste senza un organo specifico e spontaneo di realizzazione. La borghesia è un momento di caos non solo nella produzione, ma anche nello spirito. Ha disgregato l’Ecclesia, l’organizzazione della vita morale autoritaria, ma nei nostri paesi non è passata per la fase del puritanismo e della clubmania. L’associazione liberale ha determinato solo i circoli danzanti, le società di mandolinisti, ed ora incominciano le congreghe degli amici dell’ebrezza. Le associazioni borghesi sono per il piacere, non per il dovere; per eccitarsi i nervi non fiaccati dal lavoro, non per trovare il modo di rasserenare il corpo dopo il lavoro, equilibrandolo con l’attività del cervello.

L’uso della cocaina è indice di progresso borghese: il capitalismo si evolve. Costituisce categorie di persone completamente irresponsabili, senza preoccupazioni per il domani, senza fastidi e scrupoli. Le autorità ne sono consapevoli. Nuocciono questi individui? No, perché la società, in cui uno è tutti, e tutti sono uno, non è cosa borghese. Essi non nuocciono: i loro nomi non sono pubblicati, il farmacista sarà lasciato dopo una paternale, il Mogol riaprirà le sue sale. Che giova dar di cozzo contro il destino?

(21 maggio 1918).