Inviti al risparmio

Il «Momento» si è decisamente posto sulla strada maestra dei tempi moderni. Il suo economista ufficioso legge piú volentieri Luigi Luzzatti che i fioretti di S. Francesco. E non sembri, questa, un’osservazione oziosa. Non piú di due anni fa, Luigi Luzzatti compí uno di quei suoi atti che tanto lo rendono benemerito della cultura nazionale, perché dimostrano una volta di piú la verità del proverbio: «il calzolaio non parli che di scarpe», e dimostrano che Luzzatti farebbe bene a non parlare di nulla, perché non è neppure calzolaio. Luigi Luzzatti, dunque, ristampò, dando per inedito, uno dei piú conosciuti fioretti di S. Francesco, e che egli stesso aveva già stampato con una prefazione tanto onusta di erudizione, ohimè, quanto poco di prima mano. E poiché nel fioretto S. Francesco diceva che bisogna avere la massima fiducia nella provvidenza divina e che perciò è peccaminoso pensare al domani, il Luzzatti ebbe la barbara pedanteria di scrivere due colonne per confutare il santo di Assisi, e per predicare il risparmio. L’economista del «Momento» si accorda al Luzzatti, e dà una tiratina d’orecchi ai socialisti che non scodellano fresco fresco ai loro lettori un predicozzo al giorno ricantando la favoletta della cicala e della formica e quella, non meno istruttiva, delle bibliche vacche grasse e vacche magre. Ma noi non ci lasciamo invischiare, quantunque lusingatissimi del riconoscimento che i socialisti possano qualche cosa nell’animo degli operai e persuasissimi che il risparmio sia una bellissima cosa. Perché non crediamo affatto all’efficacia dei predicozzi, anche se eloquentissimi, e perché non vediamo a chi rivolgere le nostre prediche. Intanto dovrebbero dimostrarci come questo risparmio possa essere fatto. Lavorando dodici, quattordici e sedici ore al giorno, e privandosi di tutto quel complesso di piccole cose che, inutili in tempi normali, sono indispensabili per tonificare la vita di chi si abbrutisce in fatiche bestiali? L’unico rimprovero che noi possiamo muovere a qualche proletario non è quello di approfittare degli alti salari (e per quanti poi, questi salari sono cosí alti?) per migliorare il proprio regime di vita, ma quello di far la scimmia della borghesia. Di credere che la vita buona sia solo quella borghese, che divertirsi voglia dire divertirsi come i borghesi, nelle crapule viziose, nei gabinetti particolari, nelle idiotissime gazzarre senza senno. Questo sí. Chi è convinto che l’avvento del socialismo debba essere specialmente un rovesciamento dei valori comuni, non può non sentire dispiacere nell’atto in cui sorprende un proletario che mostra credere supremo ideale di vita essere quello borghese. Ma null’altro. E del resto, costoro, in quanto si abbandonano a queste velleità pitecantropesche, mostrano ad esuberanza di non essere dei nostri, di non essere di quella corrente in cui noi siamo e che impone degli obblighi e dei doveri. Per costoro varranno di piú le prediche dell’economista del «Momento», e quelle ancor piú eloquentemente melense di Luigi Luzzatti, perché sono tagliati dalla stessa stoffa, perché si abbeverano alla stessa sorgente, della stessa linfa incolore e insapore. Il socialismo non è una congrega di frati, che seguono una regola. È una libera associazione di uomini liberi, e che solo devono essere immuni da sifilide borghese. Quelli che sono affetti da questa lue sono perduti per noi, e noi ce ne disinteressiamo, lasciandoli volentieri agli altri che se ne intendono e che possono lavorarseli a loro agio.

(21 settembre 1916).