Esiste in via Arcivescovado un istituto per l’educazione correttiva dei minorenni.
È stato fondato nel 1846, in tempi prescientifici e non era che una pura e semplice casa di correzione, uno dei tanti reclusori nei quali le famiglie fanno rinchiudere la loro prole quando hanno fallito al loro compito specifico di plasmarne il carattere e non sanno piú come domarne le nascenti velleità belluine. Nei tempi della scienza trionfante l’istituto si è modernizzato, ha preso il nome di «Cesare Lombroso» ed è attualmente amministrato e diretto da discepoli ed ammiratori del morto maestro. Una fortuna, a sentir certi. Nessuno piú dello scienziato che ha trascorso il suo tempo a misurare crani ed angoli facciali, ad interrogare destramente criminali e pazzi per cogliere e fissare in schemi logici il segreto della loro psiche, nessuno dovrebbe essere piú a suo posto in un istituto di corrigendi. Errore grossolano che ha lasciato l’altro ieri un’impronta sanguinosa nel casone di via Arcivescovado. Un ragazzo è stato trovato penzolante dalla finestra di una cella di disciplina, con la testa presa alla tagliola, fra le sbarre dell’inferriata. Un episodio, per uno psichiatra come Mario Carrara, presidente dell’istituto. Episodio di cui si notano i dati esteriori, che serviranno ad uno studente per una tesi di laurea o a un professore stesso per una pubblicazione accademica. Qualche cosa di piú grave, per noi: un sintomo nuovo dello sfacelo di una teoria scientifica artificiosa, strettamente positivistica, che nell’uomo non vede che l’esteriore apparenza, misurabile con la stadera e il doppio decimetro, e crede di aver risolto il problema della correzione dei minorenni, quando ha preparato per essi un alloggio a cubatura scientifica, quando ha ridotto la loro vita ad una cronometrica divisione del tempo, ed ogni tanto li fa passare sotto gli strumenti perfezionati dell’osservazione da gabinetto. Un’inchiesta deve essere fatta, non solo per accertare le responsabilità piú immediate, per vedere con quali criteri si puniscono e come si sorveglino i rinchiusi, per vedere come sia stato possibile che un ragazzo abbia voluto suicidarsi, se si è ucciso, o sia avvenuta una disgrazia, se si tratta di una semplice imprudenza. In un istituto che la pretende a scientifico certe cose non dovrebbero neanche potersi prospettare come ipotesi. Ma la responsabilità piú grande è quella del metodo. Bisognerebbe farla finita con certa pseudoscienza che non riuscirà mai a dimostrare di aver fatto tanto bene quanto basta per scontare la vita di un fanciullo che rimane strozzato ad un’inferriata, come un uccellino che aspira alla libertà fra le gretole di una gabbia. Certo le Alessandrine Ravizza, le mammine amorose dei derelitti dei marciapiedi, non sorgono ad ogni cantonata, ma ciò non è una buona ragione per lasciare che dei freddi scienziati si divertano a fare i loro giochi di pazienza sui minorenni non tutelati da nessuno. Se essi sanno bene costruire reclusori e amministrare manicomi, ciò non costituisce titolo sufficiente per trattare i ragazzi come se fossero fatalmente destinati a quei due graziosi istituti. Gli empirici, gli uomini comuni che siano meglio di loro pervasi dal senso della simpatia umana, sapranno meglio sostituire l’opera educativa della famiglia, la cui mancanza è l’unica causa della delinquenza di tanti ragazzi spostati. Meno pseudoscienza, e piú senso comune, e soprattutto piú affetto e sincerità.
(17 giugno 1916).