La divina favella

Beati tempi, quelli dell’Arcadia in Italia! i gesuiti esercitavano un fiero controllo sulle intelligenze, la congregazione dell’altare raschiava dai cervelli e dai libri le idee pericolose. L’attività intellettuale si riduceva a belati lacrimosi sui canini e sui nei artificiali, la censura ecclesiastica aveva ridotto l’Italia in una bellissima aiuola di papaveri sonniferanti e di innocue violette. La caratteristica di questa età è la lunghissima discussione sulla bellezza, sulla purezza, sull’origine e l’avvenire della lingua. Tutti vi partecipano e ne traggono volumi e spunti per polemiche feroci.

La passione polemica compressa dalle restrizioni gesuitiche può sfogarsi in qualche modo, su qualcuno, contro i puristi codini, contro i modernizzanti sovversivi, contro gli infranciosati, ecc. ecc. La censura è eterna! Evviva dunque la censura!

Quando non si può parlare e scrivere liberamente, si finisce per non pensare ad altro che alla parola e alla lingua. L’espressione diventa un’ossessione. L’insincerità, il sotterfugio stilistico finisce inconsciamente col prendere la mano e col falsare il carattere.

La francofilia di qualche cattolico, Maria di Borio, per esempio, stucchevole romanziera quanto bigotta predicatrice di virtuosismo, per salvarsi dai fulmini dell’autorità ecclesiastica, si maschera di ammirazione per la lingua francese; la quale, tra tutte le lingue del mondo, ha certo raggiunto la connessione piú intima colla verità, essendo chiara, ordinata ed efficace ad un tempo.

Il «Momento» batte sul cane perché la censura politica non permetterebbe di battere sul padrone, e ricorre perfino a Benvenuto da Imola per dimostrare che il francese è figlio bastardo del latino, e che la «piú bella e dolce e nobile ed efficace lingua del mondo è la nostra, chiamata perciò dal Foscolo: divina favella». Tutte le censure possono essere soddisfatte. Il «Momento» avrebbe tante cose interessanti da scrivere. Per esempio potrebbe dirci il suo pensiero sui gesuiti che conquistano le chiese e mettono sulla strada i parroci da venticinque anni officianti. Ma l’arcivescovo ha posto il veto. Potrebbe dirci tante cose sulle questioni del giorno, la cui sola enumerazione è vietata, ma la censura politica lo vieta. E allora, riflettendoci su un pochino, arriva alla conclusione che la lingua italiana è pure una bella cosa, anche se la mordacchia la comprime. E rifila l’articolo per Benvenuto da Imola, per il romanticismo di Dante contro quello tedesco e francese, per le viole mammole e i papaveri contro i cardi e i pungitopo. Non manca piú che il referendum e il concorso a premio per la migliore poesia sull’argomento.

Anche noi bisogna che troviamo il diversivo. La «divina favella» o l’esperanto, o il modo di purgarsi con un nuovo citrato, non importa. Perché, se la censura ci proibisce di scrivere su cose nostre, […][1], se non vuole polemiche sindacali, né schermaglie di idee, bisogna pur trovarlo un surrogato. Un boschetto arcadico, i nei artificiali, gli amori delle oneste villanelle, la colica del canino del prevosto: a ciò deve ridursi ogni buon italiano, a maggior gloria del ministero nazionale.

(27 giugno 1916).


  1. Seguono due righe incomprensibili.