Stanco di sentirmi chiamare matto (matto originale, matto simpatico, meno male, ma sempre matto) dai conoscenti, dalle tante persone che l’occasione pone sulla stessa strada e con le quali bisogna pure, per dovere di conversazione, squadernare qualche tomo della propria esistenza, ho voluto conoscere dei matti, una colonia di matti, 2016 matti. Mi hanno assicurato che sono proprio matti, che degli scienziati con tanto di occhiali e di diploma li hanno giudicati tali; alcuni anche pericolosi (matto pericoloso, ricordo queste parole accanto alle altre di originale e simpatico). 2016 persone, ognuna delle quali ragiona con una logica propria, ognuna delle quali trae da cause arbitrarie conseguenze ancor piú arbitrarie. Vorrei domandare ad ognuno dei 2016 quanto fa due piú due; sono sicuro che otterrei 2016 risposte diverse: un milione, nove, trecento e cosí via. Vorrei esporre ai loro occhi il colore dell’iride e domandare i nomi dei singoli colori; sono sicuro che una bizzarra confusione dei nomi piú strampalati seguirebbe alla mia domanda. Ed esco dalla colonia assordate le orecchie da quel brusio di paretaio, il cervello confuso da tutto quell’incrociarsi di parole senza senso, di conversazioni interessanti per la forma bislacca, ma che comunque confondono e stancano.
Sono desolato perché non sono riuscito nel mio intento. Perché quei 2016 non m’hanno servito, non m’hanno aiutato a cogliere il segreto della mia pazzia. Ho capito perché la tutela sociale li ha esclusi dalla comunità. Perché essi operando e parlando non seguono una legge che si possa fissare in schema, perché essi non hanno storia, non hanno costumi, non hanno linguaggio. La loro coscienza non ha accumulato attraverso la permeazione sociale, attraverso le innumerevoli esperienze di ogni momento quel complesso di principî, di leggi universali che rendono meno belluino il gomito a gomito degli uomini. Chi non dice che due piú due fa quattro, come insegnano nelle scuole, è pericolo per la società. Chi dice verde il rosso può confondere il sangue con la menta glaciale, e gli uomini non vogliono servire da bibite rinfrescanti ai cervelli e agli stomachi bislacchi.
Ma mi consolo lo stesso. Ci sono tanti sciocchissimi savi, che in fondo la qualifica di matto non è offensiva. Vorrà dire che vi è nei miei discorsi qualcosa che alla comunità dei miei conoscenti d’occasione pare fuori della logica comune, fuori della storia finora vissuta. Perché altri — non d’occasione — mi trovano logico, ed io non mi meraviglio delle loro affermazioni. Vuol dire che noi che non ci diamo a vicenda del matto, e siamo piú di 2016, e cresciamo ogni giorno di numero, abbiamo trovato, abbiamo ereditato fra le nostre esperienze particolari, di classe, che sono piú strettamente nostre, e ci accompagnano (verbo di formazione simile ad affratellano, ma matto mentre questo è savio), un nesso, un modo, una qualità del nostro pensiero che è nuova, che non può essere degli altri. Essa è il sale, ciò che dà sapore alla nostra coscienza, ciò che fa di noi iniziatori di una nuova storia, di un nuovo linguaggio, di un nuovo costume. Matto vorrà dunque dire nuovo, diverso.
E allora, gli diano anche il senso di aberrante, le mie conoscenze. Non posso davvero offendermene.
(30 luglio 1916).