Ridicolo e comico

Il teatro dialettale è stato in Italia un gran maestro di sincerità. Il morto di ieri, Benini, ce lo ricorda. Le piccole cose su cui erano costruite le pièces del suo repertorio in cui la letizia o la tristezza non avevano bisogno per prorompere né di situazioni sansoniche né di sedie estatiche o di letti che giocano a nascondino, mostravano a chi aveva occhi per vedere, che il teatro può trovare sempre nell’inesausta fonte della vita regionale nutrimento leonino e anche sorgente di guadagno non disprezzabile.

A Torino il dialetto, come si è imbastardito nelle bocche dei parlanti per un urbanesimo caotico, cosí si è imbastardito sulla scena per un cattivo gusto da rigattiere del ghetto. Non parliamo di Mario Leoni. A lui il trionfo riportato nei giornali non toglie di essere un arido e scioccherello imbastitore di drammi, per il quale unica punizione possibile sarebbe il fargli attraversare la città a cavalcioni di un asinello, con le membra impeciate e rivestite di sgargianti penne di gallina, come nel Medioevo si faceva per le femmine adultere. Il rappresentante tipico del pervertimento del buon gusto paesano è un altro, e si chiama pure Mario, ma Casaleggio. Adesso ha tirato fuori La cagnotte del Labiche, come se alle sue libidini di vecchia scimmia da palcoscenico non bastasse piú il pascolo che abbondante gli offrivano i vari Corvetto, Chiappo, Consiglio, Molar, Colombino, ecc. ecc., che schizzano i loro inchiostri sulla carta monolineare o pentagrammata.

L’equivoco su cui gioca, con la compiacente soffietteria giornalistica, l’emerito capocomico, è semplicissimo: confondere il comico col ridicolo. La comicità è tutta spirituale, il ridicolo è tutto fisico e fatto di smorfie. Per essere ridicoli non ci vuole nessuna arte. Basta esserlo, ed esibirsi al pubblico nella propria sincera natura. E non si contrasta che anche il ridicolo possa essere e sia merce di scambio e di consumo. I circhi equestri, le compagnie di saltimbanchi vivono e prosperano, e cosí facendo dimostrano di essere necessari e di rispondere ad un bisogno del pubblico che paga. Ma queste istituzioni non la pretendono a teatro, e i giornali ne fanno la réclame solo a pagamento, negli echi di cronaca. Il Casaleggio invece, che ha incominciato nei baracconi di legno, non ha voluto mantenervisi. Ha fatto carriera, come si dice, ed ora la sua compagnia, nella quale del resto non mancano i buoni elementi, esercisce il Vittorio Emanuele, dove sono passate alcune delle piú illustri personalità del teatro italiano.

Casaleggio ha prostituito al cattivo gusto dialetto, provincia, paesaneria. La sua persona ingombrante di canterino rauco e sfiatato (dove s’è mai visto il curioso fenomeno d’una troupe che si improvvisa esecutrice di produzioni musicali, mantenendo intatti i propri ruoli?) può far solo ridere gli scemi con la trivialità degli atteggiamenti: non si vede certa gente ridere anche per gli ubriachi che barcollano nelle strade?

Il sano spirito paesano dovrebbe, come Ulisse quando ritornò nella sua patria, dopo i dieci anni del suo lungo errare, purificare coi vapori di zolfo il teatro dove per tanto tempo i Proci della compagnia Casaleggio hanno abbrutito i cittadini dei sobborghi.

(5 marzo 1916).