Riunione del consiglio della Camera del commercio. Un bel palazzo, dello stile che piacque all’aristocrazia torinese, quando i ricchi avevano il culto della casa: un ampio solenne scalone dalla balaustrata marmorea, una fuga di sale lussuose; incombe ovunque il silenzio piú austero. Nel soffitto della sala consiliare una grande allegoria campeggia.
[Tre righe censurate] che, nella meschina uniforme moderna, sovrasta al seggio presidenziale. Intorno gli stalli elegantissimi, di legno scolpito e dorato, accolgono i principi del ferro e della carta, i duchi della nostra civiltà, che da tutti noi, piccoli oscuri uomini, sanno esigere il contributo del nostro sudore, del nostro lavoro.
La seduta è aperta… Il pescecane presidente si rivolge ai colleghi; la voce è blanda, melliflua; un piccolo dolce sorriso gli erra perpetuo sulle labbra socchiuse, ma che subito scoprono i due incisivi superiori prominenti, e sembrano zanne, buone sempre al morso.
Bosso si alza e tuona contro lo strozzinaggio, contro il furto che nel porto di Genova devono subire i poveri industriali! Corre un mormorio di approvazione… non è presente alcun armatore, né alcun spedizioniere, e questa banda di ladri merita ben le frustate. Perdio, deve forse Bosso vendere la sua carta dieci volte piú cara, per far guadagnare i genovesi? E poi vi sono altri nemici piú forti da colpire!
Ed il presidente unisce le sue lagnanze agli improperi; anche le pelli devono pagare inaudite sopratasse; che vale compiere diuturnamente ogni immaginabile sforzo perché i soldati d’Italia abbiano le scarpe e le cinghie, e le cartucciere necessarie alla grande impresa, ed ottenere dalla Patria riconoscente, compenso, ahimè, sempre inadeguato alla fatica dell’incetta e della fabbricazione, se i meschini guadagni sono ancora immiseriti dalla voracità genovese? Ah, c’era il rimedio. Il consorzio portuario non può, il governo non vuole, eppure quale momento migliore di questo per affidare il porto alle autorità militari…?
I pescicani sogghignano approvanti… I carnali dai muscoli possenti, dai torsi scultorei, costretti al lavoro fra le baionette dei soldati, azzannati dalla canea dei poliziotti… Quale sogno… Ma il governo non vuole o non può… Passa per l’aria un brivido di tristezza muta e rabbiosa. Che ci stanno a fare a Roma quelle mezze dozzine di politicastri…?
Si parla del grano e della farina, del pane; il consigliere Vottero legge una mezza dozzina di pagine, in difesa di quei disgraziati mugnai che la demagogia, la quale ha purtroppo qualche influenza sulle sempre troppo deboli autorità governative, vuol condannare a morire di fame. Ma parla troppo chiaro… Annuncia tranquillamente che i proprietari dei molini sofisticheranno le farine; altrimenti, dice lui, ci rimettono.
I pescicani disapprovano… Che diavolo? Un po’ di prudenza; si capisce, tutti vendiamo cotone per lana, ma non c’è nessun bisogno di proclamarlo, così, in pubblico. Quindi Corinaldi, cranio lucido, pizzo bianco, pescecane invecchiato e scaltrito — quante vicende, quante burrasche superate… per buona sorte che c’è nell’oceano della vita fortuna e giustizia per gli audaci… — protesta contro le affermazioni del Vottero. «Anche i consumatori devono essere tutelati; io incetto il grano, tu arrangi le farine, l’altro lavora il pane, ma gli interessi dei consumatori ci siano sacri». Rossi annuisce. È un pescecane molto grosso e tutti hanno per lui una riverenza un po’ ironica, il rispetto che in una banda di ladri si ha per colui che recita bene la parte decorativa, ma utilissima per tutti, dell’onestà e della bonomia. Anche lui grida contro gli zuccherieri… sfruttatori ignobili che non vogliono vendergli lo zucchero, necessario per fabbricare il suo vermouth, ai prezzi fissati dal governo; piange sulla sorte dei poveri cittadini, afflitti dal rincaro dei viveri, è rabbioso contro i droghieri e i panettieri che non rispettano i suoi decreti. Pesciolini, pesciolini, ubbidite se no… I pescicani approvano; i piccoli esercenti litigheranno con i consumatori; nessuno oserà scrutare i loro affari.
La seduta è finita. Uuf! Un po’ d’aria… che puzza di milioni sudici là dentro!
(8 aprile 1916).