Scene della Gran Via

La Gran Via è in questo caso un modesto vicolo della vita politica italiana: la regione piemontese, dominata nella sua attività democonservatrice da Giovanni Giolitti. L’uomo che, secondo la devota e servile immagine dei suoi adoratori, rappresenta l’abusato cliché dello schietto spirito paesano, armato di un cappello a larghe falde, rivestito di rude fustagno e calzato delle robuste calzature di montagna, scende al piano, con la pensierosa austerità dei pastori abituati all’aria pura delle alte cime, per ammonire e consigliare il suo re, ha trovato nella regione piemontese un noioso tafano in Delfino Orsi. Un tafano, non un avversario, che dirittamente, lealmente abbia cercato di abbattere questa ridicola idolatria, per uno dei tanti Depretis che il settentrione ha regalato all’Italia. Un tafano che è un ricalco diminutivo dell’uomo che avversa, che gli è fondamentalmente simile nel programma di trasformismo, di confusionismo delle forze politiche italiane, ma che non ha di Giolitti la forza, la volontà, l’abilità di persuasione, la fortuna e l’aiuto della dinastia. Delfino Orsi non si è ancora rifugiato a Parigi, come Giovanni Giolitti a Berlino, dopo i fatti della Banca Romana. Ma se non avesse avuto la fortuna della guerra, che ha creato l’omertà tra i patriotti a buon mercato, ciò avrebbe dovuto succedere. Lo svaligiamento dei contribuenti, attraverso la oculata amministrazione dell’Esposizione del 1911, equivale alle possibili malversazioni e concussioni perpetrate a danno dei clienti della famosa banca. La misura della responsabilità non cambia, se cambiano l’entità e l’estensione della colpa. La baratteria è sempre tale anche se diversi siano Delfino Orsi, amministratore di due milioni e mezzo, e Giovanni Giolitti, ministro e tutore di settanta miliardi di patrimonio. Delfino Orsi, che avversa la guerra libica e poi, a fatto compiuto, a sacrificio inoltrato e ormai indeprecabile e, secondo la tardigrada, paurosa abitudine della mentalità conservatrice, che conserva anche il putrido e il marcio, tanto per rimanere in carattere; e Giovanni Giolitti, che avversa la guerra attuale e poi per mantenersi in istaffa, a fatto compiuto ed a ministero cambiato, glorifica ciò che gli sembrava iniquo, e parla anch’egli di una piú elevata civiltà e di una maggiore giustizia sociale di là da venire per opera dell’eroismo, dovrebbero tutti e due tacere, segregarsi dalle loro vittime, poiché queste non hanno voluto o non hanno potuto dar loro il giusto guiderdone dei meriti indimenticabili. Invece parlano e operano fra l’indifferenza generale, e continuano ad imporre le loro persone ribalde, in omaggio allo spirito democratico, che vuol dire in Italia solo impunità per i birbanti quando essi siano grandi personalità del mondo politico o giornalistico. Contro questi truffaldini dell’opinione pubblica la società borghese si è sempre dimostrata incapace a reagire, impotente a punire. È necessario che una forza estranea intervenga, superiore alle categorie di parte, agli aggruppamenti artificiali intorno alle persone ed ai sistemi demagogici. Il compito nostro ne risulta ingrandito, illuminato da una superiore luce morale. In questa società podagrosa, ammuffita, [due righe censurate] noi porteremo anche l’ordine morale, oltre che quello economico. Spazzeremo via queste combriccole criminali di camorristi, che, dopo fatto il colpo, litigano per la preda. La città che noi costruiremo non deve avere i vicoli per le rappresentazioni atrocemente divertenti della «Gran Via».

(17 agosto 1916).