Fede, speranza, carità

Una vecchia pattumiera rovesciata, quattro burattini in bilico su due fili di ferro incrociati, un cartello con la scritta: «fede, speranza, carità». Il vecchio che trascina questo suo leggero bagaglio, si ferma ogni tanto, agita la pattumiera facendo danzare le pupattole e accompagna la danza con un mugolio ritmato della strozza. È impossibile non accorgersi di lui in queste sere di pressione atmosferica variabile, quando ogni tanto uno scroscio d’acqua viene ad interrompere le tranquille meditazioni dei nottambuli e i sonni degli straccioni sopra gli ospitali marciapiedi. Eppure bisogna proprio che la fede e la speranza siano ben salde nell’anima di questo libero cittadino, perché la carità non è troppa. Sguardi poco benevoli e indifferenti dei passanti affaccendati o nei cui occhi brilla ancora la contentezza di una allegra conversazione o di un tête-a-tête delizioso, e solo spettatore del saltabeccare dei suoi attori qualche monelluccio sbrindellato e frittelloso e poco redditizio. La costanza di questo vecchio odiatore delle livree degli ospizi di carità alla fine desta ammirazione. Quel volere guadagnarsi la vita vendendo l’unica merce che sia consentita alla sua logora persona, si impone. È una protesta viva contro la filistea carità ufficiale che irreggimenta e accaserma la impotenza senile, salvo a farla sloggiare e rimetterla in circolazione quando si creda necessario adibire ad altro uso i ricoveri e gli ospizi. Meglio la libertà sconfinata del marciapiede, le lunghe camminate con il leggero fardello delle tre virtú teologali da ricordare implacabilmente al mondo che si paganizza, secondo la consueta espressione delle effemeridi cattoliche. Il fermarsi sotto l’irraggiare della luce delle vetrine dei confettieri, dove i bambini di tutte le classi vanno ad incollare le facce ingorde e far danzare i batuffoli di stracci truccati da re e da regine appesi in bilico in cima a una vecchia pattumiera. Non essere costretti a svegliarsi alla mattina a uno squillo di tromba come i giovanotti delle caserme, cercare da sé la bettola fetente che dà per pochi soldi la minestra di morchia, ma in cui si paga del proprio e si ha diritto di protestare; partecipare ancora alla baraonda cittadina e non vedersi sempre circondato da facce avvizzite e da corpi tremuli, ma qualche volta creare il sorriso di qualche visetto smunto di bimbo appena iniziato alla strada e che non può procurarsi la gioia del balocco nazionale creato da Leonardo Bistolfi. Che importa se una mattina, dopo una giornata in cui la fede e la speranza avranno bussato invano alla soglia della carità, il corpo del vecchio sarà ritrovato stecchito sotto qualche panca di osteria di infimo ordine o in qualche angolo di stradicciola non ancora sventrata? Ma gli ultimi anni di vita non saranno stati rinchiusi entro una cinta limitatrice dell’orizzonte, e il vecchio corpo abituato al lavoro non avrà indossato la livrea della carità borghesemente organizzata e amministrata, senza un pensiero dei bisogni e degli affetti che anche la impotenza senile dei mendicanti può ancora sentire e desiderare.

(6 aprile 1916).