L’inno delle nazioni

Domenica scorsa, al giardino reale, durante il concerto organizzato dall’Associazione della stampa, fra i canti patriottici piú popolari, squillarono le note dell’Inno delle Nazioni, che fu scritto — ricordava il programma — in occasione dell’Esposizione universale di Londra nel 1862 e venne eseguito nella capitale britannica al Her Majesty Theatre, il 24 maggio dello stesso anno.

Le parole sono di Arrigo Boito, ma non han meno per questo l’aspetto di ossa scarnificate, senza il rivestimento sublime della melodia verdiana.

La frase finale dell’inno poi — o meglio, il rifacimento di essa, in cui si vollero mescolare le note degli inni nazionali d’Inghilterra, di Francia e d’Italia, — fu, anche dal punto di vista musicale, un artificio stridente, e fece pensare alla fantasia tendenziosa di quegli antropologi da strapazzo, che si son divertiti, in questi giorni, sulle pagine di riviste che van per la maggiore, a fondere i caratteri delle razze alleate nella guerra mondiale con la sovrapposizione di diverse negative fotografiche di soldati appartenenti ai vari eserciti belligeranti. Ognuno comprende come dalla somma di simili negative non possa risultare che la negazione… del buonsenso e l’apparizione teratologica di un tipo non soltanto irreale, ma soprattutto disarmonico.

Ahimè! Pace ed alleanza sono forse termini antinomici e l’armonia universale degli uomini non potrà mai risultare dalla mescolanza voluta di elementi nazionali dissimili, bensí dalla combinazione lenta e spontanea delle affinità e soprattutto dall’esaltazione religiosa degli elementi ideali comuni a tutte le razze.

Oh! La fraternità vibrante nelle note divine, in cui il genio musicale della nostra terra sembrò voler diffondere in un solo abbraccio melodioso tutta l’umanità martoriata dalla furia della guerra! Quella sí che risvegliò un palpito in ognuno dei cuori (cuori di madri, di sorelle, di fratelli, di uomini umani) pulsanti come un cuore solo, domenica, sotto la carezza dolce e possente della suasione musicale.

... E fuvvi un giorno
che passò furïando quel bieco
fantasma della guerra, e allora udissi
un cozzar d'armi, un saettar di spade,
un tempestar di carri e di corsieri,
un grido di trionfo... e un ululante
urlo... e là dove fumò di sangue
il campo di battaglia un luttuoso
camposanto levarsi e un'elegia
di preghiere, di pianti e di lamenti...

Un brivido attraversò la folla — folla di madri, di sorelle, di fratelli e di uomini umani, umanizzati dal sacro soffio dell’arte — alla evocazione funesta della sanguinosa realtà.

Ma in oggi un soffio di serena dea
spense quell'ire, e se vi fur in campo
avversari crudeli, oggi non v'hanno...

La folla muta, sospesa come un uomo solo, come un bimbo solo, con la gola serrata di pianto e con le lacrime benedette a fior di ciglia ascoltò la promessa che le pioveva dal cielo, dall’armonia, e col bardo pregò:

Signor che sulla terra
rugiade spargi e fiori
e nembi di fulgori
e balsami d'amor,
fa' che la pace torni
coi benedetti giorni,
ne dona santi e belli
secoli di splendor.
E un mondo di fratelli
sarà la terra allor.

In quel momento ognuno sentí che qualche cosa esiste, qualche cosa vibra e s’afferma ineluttabilmente al di sopra degli eserciti cozzanti nelle stragi iterate; in quel momento per virtù di colui, che fu simbolo della patria negli anni sacri del Risorgimento nazionale, per virtú dell’eroe mite, che prestò le lettere del suo nome gentile come il sorriso delle nostre pianure all’anagramma ingegnoso affermante la aspirazione irresistibile del popolo nostro verso la libertà, in quel momento per virtú di Giuseppe Verdi, sentí ognuno come au dessus de la mêlée vi sia spazio per un amore che non s’arresta davanti a notre prochain ennemi!

E la Marsigliese della pace, fusa con la melodia verdiana, risonò nel cuore di tutti coi versi di Lamartine, musicali e solenni come l’onda del Reno a cui si ispirano;

Des frontiéres aux cieux voyons-nous quelque trace?...
L'égoisme et la haine ont seuls une patrie - la fraternité n'en a pas!

(20 giugno 1956).