Il servizio perfetto

Ebbene, dopo l’imbiancatura di ieri, vediamo di essere piú bravi figliuoli. Parlo di cose serie.

Sono completamente d’accordo col prof. L. Einaudi. Il servizio postale è idealmente il piú perfetto, è il servizio pubblico per eccellenza. Sembra anticipare il tempo beato in cui basterà premere un tasto determinato per avere sul momento l’oggetto che si desidera. Il servizio postale è economicamente e liberamente ideale, perché è pagato volta a volta da chi se ne serve e non è fatto andare avanti con le entrate generali dello Stato. Certo l’utilità di certe istituzioni giustifica i sacrifizi che tutti fanno per mantenerle, sacrifizi anche di quelli che delle istituzioni non si giovano, ma non si può non riconoscere che nulla è piú perfetto e piú giusto del sistema postale. Il francobollo è come il tasto di cui mi auguravo l’esistenza, che fa viaggiare mezzo orbe a una vostra missiva, che mette in movimento tanta gente e vi congiunge idealmente con mondi lontani d’amicizia, parentele, affari.

Ma tutto ciò quando le cose vanno bene. Perché la perfezione ha il suo doppio taglio. E su questo binario di idee m’ha precisamente posto una lettera raccomandata che incomincia: «Signore, è almeno la sesta volta che vi scrivo…» Casco dalle nuvole: la sesta volta signore…, è il mio caro compagno ed amico del Circolo di… ecc. che mi chiama signore e mi dà del voi come quando si è in collera. Ma via: sei lettere perdute non sono bazzecole, e il compagno ha ragione. Ha ragione? Ma contro chi prendersela? Perché la perfezione non lascia appiglio alla protesta. Partono da un punto qualsiasi della città delle lettere al mio indirizzo: una, nessuna risposta; un’altra, pazienza, quel ragazzo è cosí occupato, cosí sbadato anche, via, sarà per un’altra volta; una terza, nervosismo, irritazione incipiente, prime parole di ingrato, senza cuore, si insinua il sospetto; quarta, quinta lettera furiose, e finalmente con raccomandazione, il «signore, voi,» e il resto. E mentre tutto questo dramma… che mi interessava cosí da vicino si svolgeva, io continuavo a vivere senza sospettare la sua possibilità e senza poter fare nulla per evitarlo, per giustificarmi, per non farmi chiamare «signore» e «voi».

Ma ora è fatta, un’altra illusione è caduta, un’altra foglia si è staccata dall’albero delle cognizioni acquistate. Non che non sia ancora persuaso della perfezione ideale del pubblico servizio delle poste, ma perché m’accorgo ogni giorno piú dello stridente contrasto ideale e reale, specialmente in Italia. Il servizio è ideale, ma la burocrazia è taccagna, è insoffribile, e quando si ficca nel cervello che un tizio non deve per un certo tempo ricevere lettere, è piú implacabile della giustizia di Dio. Non ci guadagna nulla, è vero; ma appunto per ciò è meno facilmente controllabile. E appunto per ciò dà poco affidamento l’interpellanza del compagno Casalini che pure m’ha procurato una grande soddisfazione, perché nel momento in cui l’ho letta, pareva proprio fatta al caso mio.

(14 gennaio 1916).