Una forma di plusvalore

Nell’angolo di piazza Castello si svolge una battaglia a colpi di bollettini che deve essere sfuggita a ben pochi dei torinesi. La ditta Carpano ha dovuto abbandonare la sua sede secolare per un improvviso aumento di fitto, e nei limiti del possibile cerca di prevenire lo sfruttamento che i successori potranno fare del suo buon nome e della clientela conquistata con una pratica piú che centenaria. La buvette Carpano era diventata un’istituzione, e il locale da essa occupato continuerà a fruire, anche dopo il trasloco della ditta, della fama che l’abitudine le aveva creato. La questione ha uno squisito carattere di competizione capitalistica e merita di essere postillata. Credo che in Francia sia già stata risolta, e che una legge speciale regoli le contese che possono sorgere fra capitale e capitale. Si è cioè riconosciuto che del plusvalore che un locale viene ad acquistare per l’attività di un esercente, non deve essere solo proprietario il padrone dello stabile, ma anche chi questo plusvalore è riuscito a creare. Prendiamo per esempio il caso Carpano: egli ha affittato il locale in un certo tempo per una certa somma, che rappresentava l’interesse di un certo capitale: con la sua attività, dopo un certo tempo, è riuscito a dare al locale un valore triplo, quadruplo, cioè ha fatto dilatare la potenzialità fruttifera del capitale stabile. Il proprietario gli aumenta il fitto e lo fa sloggiare.

Ha diritto il proprietario a far ciò? In Francia la legge nega questo diritto, o almeno, per non intaccare il principio della proprietà privata, obbliga chi non ha fatto niente per il proprio arricchimento a versare una indennità a chi di esso è stato l’unico fattore. Non può sfuggire a nessuno il valore schiettamente socialista di questo riconoscimento, anche se ristretto entro la cerchia di interessi borghesi contrastanti fra loro, cioè anche se esso serve a dirimere controversie sorte fra due diverse categorie borghesi. I deputati socialisti di Francia cercarono di far estendere il principio anche nel campo proletario. Dissero cioè: se la legge riconosce che il capitalista ha diritto a partecipare in qualche modo al plusvalore verificatosi per opera sua nel capitale di proprietà di un terzo, sempre rimanendo nel campo dell’esercenza, perché i commessi di negozio, che hanno contribuito con la loro abilità all’incremento della ditta, all’acquisto di una clientela, ecc. non devono partecipare agli utili, e invece possono essere messi alla porta senza che la legge dia loro diritto ad un indennizzo? Naturalmente, trattandosi di relazioni fra capitale e lavoro, la mozione socialista cadde nel vuoto e le fu negata ogni importanza.

Ma rimane la constatazione del fatto. L’affermazione marxista del plusvalore non è quella enorme sciocchezza che gli economisti borghesi vogliono far parere. In paesi dove lo svolgimento capitalistico ha raggiunto una fase piú perfetta sono state riconosciute, pur entro certi limiti, le pretese di determinati ceti borghesi a fruire di esso a danno di altri ceti. È evidente che il capitalismo crea di per se stesso gli stati d’animo e le condizioni che concorrono al progressivo svalutamento del sacro diritto alla proprietà, e che non sta che nella buona volontà e nell’energia rivoluzionaria del proletariato di condurre questi iniziali riconoscimenti alle loro ultime conseguenze, e cioè che l’unico proprietario del capitale, che è tutto un plusvalore di una ricchezza terriera iniziale, è il produttore, il lavoratore che con l’energia delle sue braccia e col sacrificio della sua vita spirituale, lo ha creato, lo ha portato alle condizioni in cui si trova attualmente di prosperità e di potenzialità di ulteriore sviluppo.

(2 marzo 1916).