Qualche cosa

Poiché, a malgrado tutto, la vita continua, ed è necessario riempire con qualche cosa ognuno dei sessanta secondi di ogni minuto primo, parliamo pure di qualche cosa, cerchiamo nelle varie rubriche della nostra memoria una qualche noticina marginale, anche sia essa una di quelle noticine che appena fissata, cancelliamo; perché non bisogna caricarsi di superfluità, perché bisogna costringere anche le proprie circonvoluzioni cerebrali a fissare solo ciò che può essere utilizzato. Una noticina marginale cancellata lascia ancora intravedere un nome: Gius. Vito Galati, tafano inconcludente. Poiché bisogna pur parlare di qualche cosa, parliamo dunque di Gius. Vito Galati, scrittore di politica estera, articolista di alto bordo nel meglio fatto dei giornali torinesi: il giornale dei paperi e delle gazze.

Gius. Vito Galati scrive bene. Oggi scrivono bene tutti, anche i collaboratori del «Tempio di Salomone», organo dell’associazione enigmistica italiana. E pensa. Pensa molto. Il cervello di Gius. Vito Galati deve essere attrezzato come una scuola froebeliana; legnetti d’ogni forma e misura, accatastati su un tavolo, e un bambino è accanto al tavolo, e vuole trovare i legnetti necessari per fare una cattedrale, e ne prende un fascio e ammucchia e sovrappone e poi ammira e si ammira, estasiato. Ci sono dei bambini cosí intelligenti e cosí vispi che sanno fare dei campanili e delle cattedrali proprio con nulla. Cosí Giuseppe Vito Galati, il quale prende un ritaglio dell’«Idea nazionale», che lo ha colpito per il luccichio di una ieratica e veramente solennemente italiana affermazione di Enrico Corradini, e scrive un formidabile attacco contro Gaetano (anzi Gaetanuccio) Salvemini per provare in due e due quattro che il Salvemini non si intende un fico secco di politica estera, e ha finito di stuccare i politici esteri con le sue malinconie mazziniane a proposito degli Jugoslavi. Un altro giorno, in nome dei sacri principi, Gius. Vito Galati scrive una filippica contro Enrico Corradini, o, in nome di Mazzini, prende di petto Carlo Marx e lo scaraventa nella geenna degli oggetti smarriti di poco valore senza proprietario riconosciuto. E cosí periodicamente. E anche periodicamente Gius. Vito Galati spedisce agli organi dell’intellettualità di Bitonto, di Radicofani e di Rivarolo Canavese delle cronache torinesi in cui fa il riassunto dei suoi articoli e li porta a testimonianza di un risveglio dell’intellettualità torinese.

Gius. Vito Galati, si riesce a comprendere qua e là, è un repubblicano. Inoltre è un giovane. È molto conosciuto, e di lui si parla spesso alla mensa dei sottufficiali, ciò che significa essere egli, per lo meno, maresciallo d’alloggio, secondo le ultime informazioni potute racimolare dal nostro reporter. Ha scritto anche un libro; ne scriverà certo molti altri. È giovane ed ha innanzi a sé l’avvenire roseo e fiorito, cioè non è serio, o per usare parole meno di importanza, egli non è ancora in grado di distinguere una mosca da un elefante. Ha fatto una scorpacciata di pagine di Alfredo Oriani e di Raffaele Cotugno, di Francesco Coppola e di Piero Delfino Pesce, di Carlo Cattaneo e di Italo Minunni, e gli è rimasta, nel cervellaccio squinternato, una nube solcata di bagliori di bengala, e specialmente una ridevole vanità di provincialino in tocco. Deve essere un buon figliuolo, rovinato dalle cattive letture, come dicono i parroci. Ma è anche un esemplare della recentissima generazione italiana, impotente a conquistarsi un’anima, a farsi una cultura, una coscienza. Destinato, ora che la vita intensa rende sempre piú difficile la vita di bohème, a diventare il tarlo interiore della compagine borghese, che crea i bisogni senza fare i mezzi per soddisfarli, che ha aperto un mercato di intellettualismo e di dilettantismo cerebrale, ma non riesce piú a educare, non è piú capace di creare una nuova vita morale.

(31 luglio 1917).