L’uomo più libero

Leggo la tirata d’occasione dei giornali; spruzzatine di polvere di riso sui motivi piú abusati della polemica quotidiana. Il «Momento», dopo un pesante anfanare tra il sí e il no, se ne rimette a Massimo d’Azeglio: gli uomini credono di mutare essi il mondo, e invece è Iddio che lo muta. La «Gazzetta» di Delfino Orsi rivoga i suoi sottilissimi argomenti da bottegaio: non tende l’uomo alla felicità? Ebbene: i neutri stanno male, soffrono piú degli italiani, il che significa che la guerra ha pure apportato una qualche felicità. Incontro un professore. È contro la guerra; non è giolittiano, non è precisamente ciò che si dice un germanofilo. La guerra ha fatto chiudere l’Istituto germanico di Roma: nell’Istituto era raccolta la piú completa collezione di materiale archeologico classico: il professore non può piú attendere alla messe di titoli per la brillante carriera, e perciò è contro la guerra. Mi dibatto fra queste tre forme di schiavitú spirituale: la mia umanità ne soffre, ne è offesa, sente una diminuzione di sé, della propria libertà. Soffrirebbe meno se fosse sicura di aver subito un sopruso eroico, di essere stata vittima di una violenza volontaria. Si trova presa tra la flaccidità melensa dell’egoismo angusto, che si ripiega su se stesso gemendo sconsolatamente, e l’impotenza a creare ogni pensiero storico della suburra democratica e dell’anchilosi mentale cattolica. Tra la fatalità trascendente che determina la storia e spinge gli uomini, inerti batuffoli imbottiti di illusione, verso la morte, e la fatalità immanente nel regime autoritario, che scatena delle forze demoniache, incontrollabili, indisciplinabili, ormai fuori del regno della volontà, operante brutalmente su tutti, neutri e intervenuti, forti e deboli, innocenti e colpevoli; tra queste due fatalità il mio essere piú profondo, che lotta angosciosamente per sublimarsi in una libertà spirituale perfetta, per raggiungere l’adesione piú completa tra l’atto e il fatto, tra la volontà e il successo, vorrebbe divincolarsi in un canto lirico all’uomo piú libero, alla creatura meglio materiata di sostanza eterna che il nostro pensiero, il nostro operare faticoso in un mondo ottuso e inerte, viene preparando. All’uomo che ha ucciso tutte le fatalità, tutte le forze demoniache incontrollabili, e che perciò ha incominciato oggi col rinnegare la fatalità del mondo borghese, e si sforza oggi, con tutte le armi dialettiche, col sorriso, col ghigno, col sillogismo catafratto di farla rinnegare a un numero sempre maggiore di uomini. Che si sforza, con un lavorio corrodente di critica implacabile, di arrivare, attraverso la purificazione drammaticamente raggiunta col dolore, alla impassibilità stoica della coscienza universale, per giudicare gli avvenimenti con la pupilla ben aperta, col cervello slargato, contenente nel ritmo del suo pensiero gli echi della musica universale, dell’accordo polifonico, delle aspirazioni degli uomini piú liberi di tutto il mondo. E poiché le parole, monete tarlate di un mondo tarlato dalla retorica dei servi padroni, sono sorde a riempirsi dell’empito della coscienza dell’uomo libero, il mio essere piú profondo si alimenta della sua stessa passione, momentaneamente circoscritta a troppo pochi individui, schivando di servirsi, in un mondo di larve vaneggianti in una prigione di nebbia, delle stesse parole che questa prigione servono a infittire e a rendere piú pestilenzialmente nauseabonda.

(25 maggio 1917).