Elogio d’un povero delfino

Magnifica notte di plenilunio in riva al mare. Il porto della piccola città meridionale è silenzioso per la tarda ora. Il mio compagno di passeggio si spoglia rapidamente e fa il tuffo. S’allontana nuotando tranquillo, poi si abbandona supino alle acque che lo cullano e lo riempiono di calma felicità. Un guizzo a qualche metro di distanza, e un muso enorme soffia rumorosamente. Il mio compagno ha un sussulto spasmodico in tutte le membra, di colpo riprende la posizione verticale, rompe l’acqua con enormi bracciate, si attacca alla banchina anelante e s’abbandona sul sasso urlando: un pescecane, un pescecane! Dall’alto di un vecchio mortaio di bronzo, che ormai ha perduto ogni carattere bellicoso, tutto rosicchiato com’è dal morso delle gomene, io impallidisco fremendo, rabbrividendo per il terribile pericolo, per la morte orribile a cui avrei dovuto assistere. Ma sull’acqua azzurrissima inondata dalla luna, un delfino, un innocuo delfino, guizza danzando agilmente, e una risata ristoratrice sbotta dalle nostre gole.

Ma non bisogna ridere troppo degli innocui delfini. I semaforisti che all’ingresso dei porti vigilano all’incolumità dei bagnanti e dei lavoratori del mare sono seccati spesso da questi graziosi abitatori delle acque che, nei loro tumultuosi greggi, nascondono qualche volta l’insidioso squalo dalle mascelle ben piú formidabili. Perciò talvolta non bisogna meravigliarsi se un marinaio irritato e deluso scaglia l’acuta fiocina sull’inutile animale e lo uccide, abbandonando poi la carcassa ai flutti e alla fame dei minori pesciolini.

Tal sorte è toccata ad un povero delfino che guizzava indisturbato e tranquillo nella bonaccia del porto torinese. Non è con esattezza provato che egli sia un vero e proprio pescecane; ma il dubbio ha esistito ed esiste ancora. Certamente egli ha servito da passaporto a numerosi pescicani: Lubin, Portaubourde e qualche altro di cui ancora si tace. E conosceva l’identità zoologica di costoro; delle sentenze di tribunale li avevano già casellati e marcati a fuoco. Tanto innocente e scemo era il delfino da non sapere certe cose, da non preoccuparsene, da non cercare affatto di veder chiaro? Non sapeva egli che esponeva al pericolo le sostanze che gli erano state affidate, e la sua stessa buona fama di probo ed onorato delfino? In un cetaceo che s’atteggiava a conduttore dell’opinione pubblica, tanta ingenuità o scemenza fa riflettere; che sia solamente un delfino? La favola antica potrebbe essersi ripetuta; non è la prima volta che gli animali di rapina si ammantano di pelle d’asino per nascondere gli unghioni e le zanne. Che il nostro delfino sia apparso spessissimo un perfettissimo asino, potrebbe essere quindi una prova meravigliosa della sua doppiezza e furberia. Che colpito dalla fiocina mortale abbia continuato a sbraitare, a parlare di mala fede, di calunnie, mostra che molti sono ancora gli sciocchi e i compari. Quanti tengono ad apparire delfini, non possono permettere che uno di loro sia scamuffato. Ma nessuno tuttavia ha potuto estrarre la fiocina mordente dal fianco insanguinato; e il nostro povero delfino si dibatte, cerca divincolarsi, corre pazzamente in traccia di un salvatore, ma il sangue se ne va, le membra si intorpidiscono. Corniani tiene la funicella che, sebbene elastica, non permette di raggiungere il mare libero, la riabilitazione. E cosí muore il povero cetaceo, l’innocente animale che si è confuso nella classe degli squali da preda, e non ha saputo dimostrare la sua vera identità.

E una lagrima furtiva sgorga dagli occhi dei buoni torinesi; poiché è un altro brano del passato, che la vita ha travolto.

(11 giugno 1916).