Nestore e la cicala

Cinque giorni di stretta intimità. Cinque discorsi senza contare i minori metraggi. Boselli non ha perduto il suo tempo. Ha preso sul serio il mandato specifico che l’ironia della vita parlamentare gli ha affidato. Parlare, solleticare con le frasi bonarie, argute, paternamente familiari i trovatelli del brefotrofio nazionale, che per deficienza costituzionale amano i luccichii delle pietruzze iridate e con esse si trastullano, mentre i pochi adempiono a tutto quanto la vita di un cosí grande ricreatorio richiede. Il pupillo non vuole tutori giovani; il confronto con la sua giovinezza inerme e la giovinezza attiva del tutore lo umilierebbe troppo, lo spingerebbe forse a cercare di far da sé, a scuotere di dosso il fardello. La democrazia in Italia vuol dire oligarchia, ma con le apparenze salvate, con l’illusione in tutti di essere qualcuno. E i vecchi sono delle maschere magnifiche. Chi dei trentaquattro milioni d’italiani vorrà avversare Boselli? Ma volete dunque farlo morire, questo buon vecchio che ha dato alla patria cinquant’anni di discorsi e di «prediche emarginate»? Non fa male a nessuno — si dice — perché dargli dei dispiaceri? E «la buona immagine paterna» si incolla nel cervello, fa dimenticare tutto il resto.

Noi ammiriamo gli antichi. E gli antichi ammirano e rispettano due cose: le cicale e i vecchi. E tutte e due sublimarono nella leggenda. Nestore, dalla cui bocca fluivano sempre parole piú dolci del miele, e Tritone. Ma il vecchio Nestore parlava poco, e operava molto, e l’aiuto del suo braccio era apprezzato tanto quanto quello del suo senno. Tritone è, invece, il vecchio che adora, il vecchio che declama, ma non può fare. Il rispetto per la senilità loquace gli antichi glielo dimostrarono in un modo piuttosto strano per noi. Immaginarono che Tritone diventasse cicala, e adorarono la cicala. Nelle afose serate di agosto, il frinire infinito dell’infecondo animaletto contribuisce a riempire l’essere di torpore, di languidezza, di abbandono. Sembra la voce della terra che assorbe nel suo grembo inturgidito dal solleone e dagli acquazzoni tutte le sue creature. E gli uomini si lasciano ammaliare e dormono tranquilli e buoni. Ma pur ammirando gli antichi, noi, che nel nostro animo abbiamo domato la tendenza all’idillio georgico, finiamo con l’averne abbastanza della cicala e della sua intimità che rompe i timpani.

E rispetteremmo e venereremmo la senilità arguta di Paolo Boselli, se egli si accontentasse di starsene all’angolo del focolare a narrare fole ai nipotini e non tenesse tanto a mettere insieme il venticinquesimo volume dei suoi discorsi politici.

(20 agosto 1916).