Una moglie che fugge con l’amante, abbandonando nel lutto e nella disperazione l’inconsolabile consorte? Coltellate, revolverate che due creature umane si sono reciprocamente scambiate, persuase ognuna di non poter piú vivere se l’altra continua a mangiar pane e vestir panni? No, no, il dramma non è un comune dramma da romanzo d’appendice.
Esso si è svolto in un giardino, in una breve zolla della superficie terrestre, recinta di muraglie, che chiamo giardino perché pensiero alcuno di utilità non ne ha mai scalfito la crosta. La vita sociale si spezza contro le muraglie, non penetra neppure con un mormorio indistinto. La vita sociale è il peccato, la vita individuale stessa è peccato, che si sconta macerandosi il corpo, imprigionandosi volontariamente entro le muraglie di sasso e calcina ed entro muraglie piú spesse e impenetrabili: dell’oblio, dell’ignoranza. Esistono ancora, nel centro stesso delle città piú moderne e piú ferventi di operosità, questi buchi dove si rifugiano gli ultimi relitti del bizantinismo claustrale, del cristianesimo opaco, irriducibile anche alle piú elementari tendenze riformistiche che il cattolicismo ha prodotto nel suo seno, e dalle quali è stato tanto trasformato e sempre piú sta per esserlo.
Il giardino è l’ultimo pezzo di mondo frequentabile, illuminato da una grande finestra, dal quale, incorniciato dai quattro muri, l’occhio umano può ancora affisarsi a mirare il quadro che incessantemente si trasmuta: un lembo di cielo dove il pennello del vento distende le tinte cupe delle nuvole, o spazza, lasciando che piovano i raggi splendenti del sole, o pallidi e tremuli delle stelle.
Il fervore del mondo si rompe contro le muraglie; non vi penetrano notizie, e neppure mormorii. La guerra vi fu ignorata per lungo tempo, e solo una vaga notizia riuscí finalmente a scivolarvi con un ordine di preghiera. Ma un giorno una delle creature umane, marcenti nel buco, uscí nel giardino, passeggiò nel giardino e vide, nel quadro incorniciato dalle quattro creste dei muri, passare un mostro dell’Apocalissi, e svenne, l’innocente sorella, e tutto il buco fu in subbuglio, e tutte le creature umane, marcenti nel buco, dimenticarono la disciplina del chiostro bizantino, e sussurrarono per il peccato mortale che, non potendo irrompere lateralmente, non potendo insinuarsi attraverso le muraglie, trasvolava nel cielo, sussurrarono perché il fauno poteva dall’alto far penetrare il suo cupido sguardo sulla femminilità pallida e sfatta macerantesi per scontare il delitto di essere viva.
Questo il dramma svoltosi nel breve spazio di un monastero torinese, nell’anno di grazia 1918, quinto della guerra mondiale. Cosí si rivelò l’esistenza dell’aeroplano a un frammento di umanità segregatosi dalla vita: come una possibilità nuova del peccato di tentare ed aggredire la carne. E la gerarchia studia per risolvere il problema: come costruire i conventi perché la clausura sia assoluta? Come segregarsi per essere sicuri? La vita moderna distrugge gli ultimi baluardi del bizantinismo, la vita moderna rende impossibile il bizantinismo, e cerca di espellere dal suo plesso come può queste larve senza farfalla che aggiungono volontaria tristezza alla tristezza che fatalmente si accompagna a tutte le forme di vita.
(9 agosto 1918).