Anticlericalismo sul serio

In alcuni convegni tenuti a Bari per studiare i problemi del dopoguerra, si è cercato di concretare, in una forma che fosse piú capitalisticamente adeguata delle becerate riformistiche dell’on. Drago, la riforma della terra ai contadini. I borghesi delle Puglie hanno trovato che sarebbe ora di risolvere definitivamente la questione dei beni ecclesiastici, rimettendone in circolazione la proprietà, facendoli entrare nel gioco della libera concorrenza. I giornali clericali strillano, naturalmente, e il «Momento» scrive che se la proposta diventasse legge «si arriverebbe al magnifico (!) risultato di togliere alle congregazioni religiose il mezzo per vivere e, soprattutto, per svolgere quella attività sociale ed educatrice che tante simpatie acquista loro in mezzo a coloro che ne sono beneficiati».

Per noi la proposta dei borghesi di Puglia è un sintomo di progresso storico, e la accomuniamo con l’ordine del giorno votato dalla Camera di commercio di Bari che velatamente minaccia una fiera resistenza (senza esclusione di mezzi e che potrebbe arrivare fino a mettere in pericolo l’unità nazionale) alla campagna sfacciata che gli industriali settentrionali conducono per la perpetuazione e un inasprimento del regime protezionistico. Sono due segni del risveglio capitalistico nell’Italia meridionale, dell’ingresso nella storia moderna di una classe economica che si trova subito impacciata nello sviluppo dalle tradizioni feudali, dall’economia feudale, che in mezza Italia continua tranquillamente a sussistere all’ombra e col beneplacito della legislatura unitaria.

I beni ecclesiastici sono uno dei ruderi piú vistosi e ingombranti del feudalismo. In se stessi, perché privano l’attività economica libera di strumenti di lavoro che sarebbero altrimenti redditizi. E anche perché, come dice il «Momento», essi sono «il mezzo per vivere e svolgere l’attività sociale ed educatrice» dei preti. È supremamente immorale che nei tempi nostri, lo Stato borghese individualista lasci ad un partito, che rappresenta il passato superato, i mezzi per continuare in un’attività anacronistica. Non si tratta di fare dell’anticlericalismo sguaiato e volgare. Si tratta di richiamare lo Stato moderno al suo compito preciso di eliminatore delle sopravvivenze anacronistiche, di porre tutte le idee e tutti i programmi in un piano iniziale di partenza eguale, perché esse si affermino e si sviluppino solo in quanto rappresentano una necessità e un progresso, non in quanto protette e artificialmente sorrette.

Il «Momento» vede nella proposta lo zampino della massoneria. Ma non deve essere cosí. Già da tempo la massoneria fa e disfà le cose italiane, ha avuto suoi accoliti al dicastero dei culti, e non ha mai pensato di colpire veramente il clericalismo nella sua radice piú vitale. È la storia che si afferma malgrado tutto, malgrado la stessa massoneria, è il capitalismo che cerca uno sviluppo anche nelle terre dove piú a lungo, per malvagità di uomini e di governi, si è mantenuto vivo il sistema feudale, l’inalienabilità degli strumenti di lavoro, la morale del servaggio, il dominio delle cricche, la disonestà amministrativa. I preti rappresentano meglio questa tradizione, questo sistema, e la borghesia nascente del luogo cerca liberarsene, poiché la borghesia piú evoluta del settentrione non ha, attraverso lo Stato, provveduto prima, e invece si è servita di quel sistema, di quella tradizione per arricchire meglio i suoi ceti improduttivi e poltroni.

(5 aprile 1918).