Il cittadino impiegato, dopo che alla Camera i democratici hanno fatto naufragare l’ordine del giorno Merloni, e il progetto di legge sul contratto d’impiego è stato rimandato a tempi migliori, compila i suoi ordini del giorno e li manda ai giornali. Il cittadino impiegato vuole continuare cosí l’onesta tradizione che Luigi Lucatelli ha immortalato nel tipo di Oronzo: ad ogni rovescio il cittadino scrive la sua protesta stizzosa ai giornali, e poi s’acquieta fino al nuovo rovescio e alla nuova epistola, oppure il cittadino propone di raccogliere «in un libro d’oro» il nome di quelle ditte e di quegli istituti che già hanno largheggiato in concessioni ai dipendenti.
Il cittadino vuol mantenersi nella legalità. Egli è forse dei piú colpiti nell’attuale stato di cose borghese, ma vuole mantenersi nella legalità. Pensate: l’impiegato ha uno stipendio fisso, accertato fino all’ultimo centesimo dall’agente delle tasse che gli fa pagare 7,50 per cento di ricchezza mobile; ad ogni nuovo aumento di tasse e rincaro in genere della vita, tutti i fornitori si riversano sui clienti e chi sta peggio di tutti è l’impiegato che non può rifarsi su nessuno, che non è organizzato per la lotta di classe ed è tutto quanto alla mercé dei suoi principali. Il padrone di casa, che vuol mantenere intatto il suo reddito, distribuisce la nuova tassa sugli inquilini; l’esercente sui suoi clienti, il parrucchiere sui suoi pazienti, il cinematografo, il trattore… Nessuno vuole che la nuova tassa rappresenti un suo sacrificio personale, e la fa pagare agli altri. La macchina dell’economia borghese funziona magnificamente: ogni nuova gravezza va a schiacciare il consumatore, il proletario, ma se questi è organizzato, può almeno in parte rifarsi anch’egli e premere perché gli sia aumentato il salario. L’impiegato, no: il suo stipendio è l’ultima ruoticina dell’ingranaggio, quella che non ha nessun’altra presa che viene mossa dal colossale congegno, ma sbatte inutilmente le sue palette all’aria e macina solo lettere ai giornali e libri d’oro per chi è un po’ misericordioso. Duecento franchi al mese (siamo larghi, via!); quindici lire di ricchezza mobile; dieci lire per pagare le tasse al padrone di casa; cinque per quelle del trattore, due per quelle del parrucchiere, ecc. ecc. Ma, dio bono, non si è proletari, si è gente per bene, non ci si vuol mescolare con la canaglia, si è soci dell’Unione monarchica, la cui tessera dà diritto a sconti rilevanti sui bagni pubblici, sui teatri, sui cinematografi. Epperciò si accoglie, è vero, come manna caduta dal cielo, l’opera che Merloni o altri nostri dànno a sostegno dei sacrosanti diritti della categoria, ma dopo che se ne è preso atto e si sono mandati i ringraziamenti del caso, non se ne fa piú niente. Il cittadino che protesta vuol conservarsi in carattere, e non vuol diventare il cittadino che si organizza. Meglio mandare epistole ai giornali e compilare «libri d’oro» con la fotografia e i titoli di benemerenza dei cuoricini teneri che si sono commossi alle disgrazie del povero travet. E che la ruoticina del loro striminzito stipendio continui pure a macinare aria e sospiri.
(17 aprile 1916).