Ci accusano di essere vecchi. Si pigliano persino beffe di noi perché non manteniamo tutte le promesse, perché promettiamo piú di quanto possiamo mantenere. In certi momenti, immersi come siamo in questa vita tumultuosa che ci circonda, sensibili come siamo ai rimproveri, alle facce irosamente beffarde dei nostri avversari, sentiamo anche noi come una diminuzione di noi stessi, ci sembra davvero di essere decrepiti, di non riuscire a far sgorgare dalle nostre labbra la parola definitiva, la parola che dia forza ai nostri organi, che infonda vigore alle membra rattrappite e le renda elastiche, atte alla lotta e alla conquista feconda.
Ma una breve riflessione scaccia questo pessimismo. Ci sentiamo vecchi perché il destino perverso ci ha fatti nascere in età vecchia. È l’aria che respiriamo, sono gli istituti che ci reggono, sono gli uomini coi quali siamo in lotta, che sono vecchi. A ogni colpo vigoroso che meniamo su questo verminaio, una tanfata di vecchiume ci ottura le nari; ogni qual volta rimestiamo questa materia in decomposizione è tanto lo schifo che ci investe, che ineluttabilmente ce ne sentiamo noi stessi intaccati. Come il Lao-tse della leggenda cinese, siamo dei vecchi fanciulli, della gente che nasce ad ottant’anni. Un cumulo di tradizioni grava su di noi, e dobbiamo inarcare maggiormente le reni per reggerlo; leggi centenarie legano la nostra attività attuale, e lo sforzo per superarle deve sintetizzare tutti gli sforzi delle generazioni passate, che non si curarono di combattere per noi, di aprirci una strada meno irta di triboli, di ostacoli che uno per uno sono niente e nel complesso sono formidabili. Ci voleva la guerra per scaraventarci sulle gambe questo materasso molliccio di pregiudizi, per fare dei tanti fili sottili di seta una rete inestricabile.
Ma non è parola di sconforto, la nostra. Bisogna anzi avere ben chiaro dinanzi ai lucidi occhi l’ostacolo complesso per meglio sfondarlo con il colpo di mazza. La visione della vita sociale, quale ci si offre ormai integrale, rinnova la fiducia e il proposito che nel passato solo pochi potevano avere. Gli stessi nostri compagni di lotta ci hanno chiamati mistici della rivoluzione; e lo eravamo nel passato, perché la nostra era solo intuizione della realtà, non rappresentazione plastica, viva, di ciò che si doveva abbattere. Dove tutti non vedevano che singoli «fatti», che singole «posizioni» da conquistare con la pazienza per arrivare finalmente alla cima, noi vedevamo un muro compatto su cui rovesciare con un atto energico, volontario, la massa delle nostre forze.
O tutto o nulla, noi dicevamo. E la guerra ci ha dato ragione. O tutto o nulla deve essere il nostro programma di domani. Il colpo di mazza, non lo sgretolamento paziente e metodico. La falange irresistibile, non la lotta da talpe delle trincee fetide. Siamo dei giovani vecchi. Vecchi per il cumulo enorme di esperienze che in poco tempo abbiamo raggruzzolato, giovani per il vigore dei muscoli, per il desiderio irresistibile di vittoria che ci investe. La nostra generazione di vecchi giovani è quella che dovrà realizzare il socialismo. I nostri avversari si sono svuotati nell’enorme sforzo sostenuto per difendere ognuno il suo campicello. Ebbene, su questo tronco veramente decrepito meniamo il colpo finale della nostra mazza e l’ora nostra sarà giunta, scoccata per la nostra volontà irresistibile, sí, ma riflessiva.
(13 luglio 1916).