Nenie di carnevale

 

La volontà, e la protesta di Grassi, «Rifatto», hanno prevalso. Ha torto il torinese giornale delle serve e dei furieri, che muove una concorrenza spietata all’«Amore illustrato» e alla «Farfalla»: ha torto il giornale di protestare nella forma solenne del corsivo di nota, perché l’ex môradôr arricchitosi cristallizzando il sudore altrui, non è ascoltato dal consiglio comunale. Il consigliere Grassi, campione sopraffino del nazionalismo torinese, ha una preponderanza ragguardevole nel consesso dei padri coscritti. Traducendo in torinese il monito del prof. Cian che vuole la giocondità anche in tempo di guerra per riaffermare la nostra superiorità tradizionale di Karneval-Nation in confronto alla cupezza barbara e feroce dei nemici, l’ex môradôr, già aveva proposto in consiglio comunale di sostituire nei teatri cittadini le opere insigni con gli stornelli della Bela Gigôgin, s’intende per viemmeglio carrucolare l’entusiasmo bellico dei rimasti a casa.

Del resto Grassi è il membro piú simpatico della maggioranza consiliare; è un conseguente, ed è un applicatore della teoria.

Se è bene essere giocondi anche, anzi soprattutto, in tempo di guerra, non si capisce perché qualche inguaribile melanconico volesse la soppressione dell’annuale kermesse con relativi baracconi, giostre ed esibizione della donna cannone. L’ex môradôr tanto ha fatto che persino l’assessore della polizia civica, avv. Barberis, a malgrado dei rimbrotti dei suoi amici di sacristia, ha concesso che la kermesse a scartamento ridotto avesse luogo. Se non proprio nel centro, in piazza Vittorio Emanuele, di contro al tempio votivo e alle colline frigide nella melanconia dell’inverno geloso, umido, persistente, almeno a Porta Palazzo.

Sono andato anch’io laggiú a pestare un poco del fango e a lustrarmi la vista nel luccichio abbarbagliante delle giostre e a stordirmi alquanto nel frastuono degli organi strimpellanti le glorie piú pure della musica nostrana.

Uno squarcio di provincialismo d’ultimo grado: un paio di giostre mosse da un paio di ronzini sfuggiti alla requisizione; un paio di baracconi; qui e là i piccoli banchi delle leccornie a buon mercato e intorno, intorno una piccola folla distratta, annoiata…

Uno sbadiglio di carnevale! Il carnevale è finito, è esaurito. Oggi è il tradizionale martedí grasso. Passerà come uno dei trecentosessantacinque dí dell’anno.

Gli strimpellamenti, le battute degli organetti, i dondolii e le cavalcate di giostra a Porta Palazzo, tutta questa miserevole e banale riduzione carnevalesca, ieri, quando trascinavo la mia irrequietezza insonne per quei paraggi, le ombre del crepuscolo scendevano meste, tacite, lievi; era come un insistente echeggiare di nenie di un tempo lontano e vano. Quella folla che mi circondava sentivo che non gioiva, non poteva piú gioire. Era intorno a noi, sopra di noi, come un incubo invisibile eppure terribile, un pensiero dominante e soverchiante cento clamori era come dentro di noi, carne della nostra carne, sangue del nostro sangue. Ed è cosí che ieri sera, sera di grasso, anch’io ero là a Porta Palazzo a suggere nell’aria umida una tristezza piú profonda, un’angoscia inesprimibile, ero là ad assistere all’agonia del Carnevale, cui la guerra ha dato l’ultimo tracollo. Mi spiace per Cian il teorico e per Grassi il tattico, ma il Carnevale è finito e una nuova tristezza ricomincia piú grande nella cenere quaresimale, piú profonda e piú diffusa.

E nell’attesa ritorno anch’io al giambo di Enotrio, al Carnevale lugubre di Enotrio.

[Sei righe censurate].

(7 marzo 1916).