La campana

Il gergo barabbesco si è impadronito della parola santa, l’ha ricreata, le ha dato un contenuto proprio, fantastico, che non potrebbe essere meglio espresso. Compare è già un’altra cosa; indica piuttosto la complicità morale, è piú generico, meno plasticamente vivo. Piú ancora di palo, rigidamente statico, legnoso, senza voce e possibilità di richiamo, campana fa subito pensare alla vigile anima sonora del bronzo, che squilla, suona a martello, lancia nello spazio i suoi rintocchi ammonitori che avvisano del pericolo lontano.

Pippo il guercio, Pinot gambelunghe, campane principi, che conoscete le malinconiche lunghe soste agli angoli delle vie buie nelle notti nebbiose, la vostra onorata fama di guappi ha un temibile concorrente. Egli è il cardinale arcivescovo, il santo presule che passa per le vie del suo ovile, rosso di tutte le fiamme della vergogna, e con gesto stanco tende la mano grassoccia alla folla di curiosi che s’inchina e bacicchia l’anello, sigillo di iniquità e di frodi. Piantata all’angolo di via Garibaldi, questa ribalda campana vigila a che i saccomanni non siano disturbati nella loro rapina di cose sacre. Il questurino scivola lentamente e evita di intervenire; e la donna di marciapiede, la democrazia imbellettata di via Quattro Marzo, ammicca furbescamente e tace prudente. La clientela è scarsa e non conviene turbare il poco commercio con inopportuni sbandieramenti di sacri principi. Le nostre sassate hanno un po’ turbato le facce pallide dei vari padri Fort, che hanno già piantato l’accampamento nella chiesa dei SS. Martiri, e fra l’orma delle pedate di S. Giulia e il pellegrinaggio al Santuario di S. Ignazio, incominciano a tessere le ragnatele, in cui cadranno pingui eredità, passaporto per il paradiso di tremule anime aristocratiche, il cui corpo è tarlato irrimediabilmente dal fuoco corrodente del vizio e del peccato, e gli oboli dei politicanti che gioiscono della nuova possente colonna su cui la buona causa potrà in avvenire appoggiarsi.

Ce lo dice una delle facce pallide, fermando il suo obliquo passo silenzioso sotto le navate deserte. Essa non dubita dell’identità dell’interlocutore. La censura ci ha abituato ai silenzi, bianchezza verginale; il gesuita crede alla nostra parola, si sbottona, comprendiamo, fiducioso. Fiducioso e con un sorriso sulle labbra sottili di discreto trionfo. Leggi dello Stato, proteste di cittadini, voti di consigli comunali, rumori mondani cui egli tende appena l’orecchio; la campana lo protegge e al momento opportuno i cittadini taceranno, la giunta troverà che tutto va bene perché il diritto canonico è stato osservato, e lo Stato continuerà come prima a non far osservare le leggi. La campana non ha vibrato, non ha avvisato di pericolo alcuno, ed è una buona campana, che sa il fatto suo e prende a cuore gli interessi dei suoi buoni amici. E il batacchio è a Roma in mano del generale, in mano alla congregazione del Concilio, che hanno le braccia lunghe e sono tanto influenti, tanto cari e diletti anche a chi si adorna del serpente verde e del grembialino massonico. Nelle labbra sottili vive sempre il sorriso indefinibile di sicurezza, di trionfo.

È vero però che altre volte altri battacchi hanno suonato a Torino, a martello e a festa, e non fu lieto suono quello che diedero le benedette terga dei discepoli di Loyola.

(28 giugno 1916).