Profumi di rose

Profumi di rose da due giorni si diffondono per la penisola. Non ve ne sentite imbalsamati? Non vi abbandonate deliziosamente all’incanto che si propaga per le terre brulle di uomini e di frutti?

Un uomo specialmente deve fremere con tutti i suoi nervi, deve aspirare voluttuosamente gli olezzi che promanano dall’Oriente gravido di misteriosi eventi.

Oggi quest’uomo si è impicciolito fino a farsi una umile margheritina prataiola. In tempi remotissimi (cinque anni non sono stati cinque secoli di storia? e poiché la storia è ricordo di gesta, e gli italiani difettano di memoria, cinque anni non sono stati cinque millenni nella coscienza storica degli italiani, che difettano di memoria?) quest’uomo fioriva a Torino come superbo e magnifico girasole, destava molta invidia e molta ammirazione, nutricava coi suoi opulenti semi uno stuolo chiassoso di pappagalli lusingatori, e credeva di essere il motore del sole (debolezza tradizionale di ogni girasole).

Erano allora rinati tutti i miti febei. Il sangue di Enea rifermentava nelle vene arteriosclerotiche di professori e giornalisti e siderurgici ed armatori; le volontà si protendevano verso l’Oriente, ed avremmo gli Argonauti tentanti le difficili strette dardanelliche, e avemmo le infauste Sirti che il miraggio solare, o girasolare, faceva popolate di vigne, d’oliveti e di pingui orti messianici.

Cinque anni sono trascorsi e paiono cinque millenni e pare che tutto sia sprofondato nel buio della preistoria. Ma qualcosa sornuota l’abisso, qualcosa ricongiunge la preistoria all’attualità: questo profumo di rose che giunge da Adalia, questo acuto olezzo orientale che deve far fremere un nitrito feroce nella gola secca dell’arrembato ronzino wilsoniano che fu già stallone di guerriero, che deve far sollevare la pendula corolla pensosa alla margheritina prataiola che fu già superbo e magnifico girasole. Il senatore Frassati deve sentirsi turbato profondamente da due giorni: Adalia è italiana, sono nostri i roseti anatolici. E come la storia si ripete: a braccia aperte sono stati accolti i nostri soldatini, come liberatori, come salvatori. Dove sono i pappagalli lusingatori per solfeggiare le glorie del senatore profeta, per intessere serti all’ardito pioniere che segnò le vie della storia, che mostrò l’Oriente al genio della stirpe dopo avergli mostrato e avergli fatto gustare le delizie degli oliveti cirenaici e degli orti tripolini? I pappagalli si sono dileguati; i donatori di regni e d’imperi non hanno fatto fortuna nel nostro ingrato paese. Che tristezza, che melanconia nostalgica. È davvero sconcertante questo profumo di rose che risveglia il passato remoto; esso turba, come nelle pochades il rivedere appassiti pegni d’amore rifrusta il sangue di due avvizziti melodrammatici ruderi dell’amore. È seccante questo profumo di rose orientali; perché si mescola al profumo del garofano rosso-pallido, col quale si cerca di ritentare oggi la fortuna dei miti solari, e ne risulta un asfittico miasma, né rosa né garofano, e il sole si annebbia e non si sa quale sia: il sole dei miti messianici per la stirpe o il sole dell’avvenire? Che tristezza, quanta melanconia si propaga fino a Torino insieme al profumo delle rose di Adalia.

(10 aprile 1919).